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L’Italia resta spaccata in due e lo Stato continua a fare figli e figliastri. Un’evidenza certificata da fonti autorevoli: dalla Corte dei conti alla Svimez, passando dal Parlamento stesso e dalla recente indagine promossa dalla presidente della commissione Finanze.

I numeri sono sotto gli occhi di chi vuol vedere, il primo è il più macroscopico: 62,5 miliardi. Sono le risorse che nel solo 2017 sono state dirottate dall’Italia meridionale al Centro-Nord. Risorse che avrebbero potuto garantire asili nido, cure mediche dignitose, un welfare più equo ai cittadini del Sud.

SCARTO INIQUO

Il calcolo è messo nero su bianco dai Conti pubblici territoriali, istituto statistico facente capo all’Agenzia per la Coesione territoriale, che si occupa di misurare e analizzare i flussi finanziari di entrata e di spesa delle amministrazioni pubbliche e di tutti gli enti appartenenti alla componente allargata del settore pubblico. Quei 62,5 miliardi rappresentano uno scarto del 6,4%, in crescita dello 0,4% rispetto al triennio precedente, fra quanto il Sud avrebbe dovuto ricevere in termini di spesa pubblica, sulla base della popolazione residente, e quanto ha avuto in realtà.

I cittadini del Sud, vale a dire il 34,2% degli italiani, portano a casa appena il 27,8% dei trasferimenti provenienti dallo Stato centrale. Tendenza invertita dal Centro- Nord che riesce ad accaparrarsi molto più di quello che l’aritmetica consentirebbe: il 65,7% della popolazione accede al 72,1% delle risorse statali. Per un cittadino del Nord lo Stato spende in media 17.506 euro all’anno; per uno del Sud appena 13.144.

GLI INVESTIMENTI

La situazione non cambia se guardiamo a quanto spende lo Stato per gli investimenti, cioè la spesa in conto capitale: se negli anni Settanta allo sviluppo del Sud veniva destinato lo 0,85% del Pil, nel periodo 2011-2015 tutto si è ridotto allo 0,15%.

Altro che Alta velocità, infrastrutture moderne, ponti sullo Stretto: di questo passo continuerà a essere difficile rattoppare una strada provinciale del Sud.

FONDI DI COESIONE

Come se non bastasse, lo scippo è proseguito sui soldi che spettano di diritto al Mezzogiorno, quello del Fondo coesione: in questi anni i fondi europei sono stati la pezza sui buchi creai dai governi nazionali.

Una pezza che in teoria dovrebbe essere “aggiuntiva” rispetto agli investimenti nazionali, ma negli ultimi 13 anni è successo esattamente il contrario: l’Italia ha tagliato i fondi di Sviluppo e coesione, destinati per l’85 per cento al Sud, e ha dirottato le relative risorse su altre voci di spesa.

Ecco i numeri, elaborati sui dati della Ragioneria generale dello Stato. L’importo complessivo destinato dalla Finanziaria per il 2007 al Fondo sviluppo e coesione per la programmazione 2007- 2013 ammontava a 63,273 miliardi. Oltre un terzo, 22,3 miliardi, è stato dirottato con una successiva delibera Cipe sul risanamento dei conti pubblici durante la crisi dei debiti sovrani. A crisi arginata, nel periodo di programmazione 2014- 2020, i 68,8 miliardi del Fondo hanno subito una decurtazione di 9,5 miliardi, che sono andati a coprire altri provvedimenti legislativi. A conti fatti, 31,8 miliardi di tagli in 13, di cui oltre 27 (l’85%) pagati dal Mezzogiorno.

GLI AIUTI DI STATO

E non è finita qui: a completare l’opera l’impiego degli aiuti di Stato, risorse destinate dall’Amministrazione centrale alle imprese, nel rispetto delle norme europee. Da agosto 2017, la Lombardia ha ricevuto 3,5 miliardi di euro in aiuti di Stato, quasi sei volte i 600 milioni incassati dalla Calabria. A primo impatto, il dato generale risulta equilibrato: le risorse concesse vanno infatti per il 38,3% a imprese delle regioni Meridionali e per il 61,7% ad aziende del Centro Nord.

Ma approfondendo la questione, ecco che salta fuori qualcosa che non va: basta scomputare dal totale il denaro proveniente dai fondi europei, per trovarsi davanti tutto un altro film. Il Centro Nord si accaparra il 73,2% degli aiuti, al Sud va appena il 26,8%. Ben al di sotto della quota di garanzia del 34%.

Nel Mezzogiorno solo tre regioni su otto ricevono risorse uguali o superiori al miliardo di euro: la Campania (2,2 miliardi), la Sicilia (1,7 miliardi) e la Puglia (1,6 miliardi). L’Abruzzo, regione il cui tessuto economico è stato messo in difficoltà anche dagli eventi sismici degli ultimi anni, si fermato a 600 milioni.

BANKITALIA

Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, recentemente ha ribadito due concetti fondamentali per la ripresa: giustizia sociale e riduzione delle disuguaglianze. Non è entrato nel merito dei temi, ma è evidente che l’unica manovra economica che abbia un senso è quella che mette al centro il rilancio del Sud, per azzerare le diseguaglianze con il Nord.

Il primo punto che Visco ha posto è il recupero del ritardo accumulato nelle infrastrutture: sia quelle tradizionali, da rinnovare e rendere funzionali, sia quelle ad alto contenuto innovativo, come le reti di telecomunicazione. Ecco, all’Italia serve correggere questa stortura. Come? Riportando gli investimenti per lo sviluppo del Mezzogiorno lontano da quello 0,15% del Pil (dati dei Conti pubblici territoriali) a cui sono ancorati oggi.

LA RETE STRADALE

Nel Mezzogiorno si contano anche meno autostrade, a discapito di cittadini e del tessuto produttivo nazionale: al Sud ogni impresa può contare su meno di 20 km di reti, la metà di quelle a disposizione nel Nord-Ovest, con la Puglia fanalino di coda con appena 7,9 km per azienda.

Partiamo dalle autostrade: a fronte di una media nazionale di 23 km ogni 1.000 kmq, al Sud si scende a 20 km/1.000 kmq, con la Basilicata ferma a 3 km/1.000 kmq e il Molise a 8 km/1.000 kmq.

LA SANITÀ

Persino in un settore delicato come la sanità, il Sud è storicamente penalizzato: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno, infatti, visto aumentare la loro quota, in media del 2,36%; mentre per altrettante regioni del Mezzogiorno la fetta è lievitata solo dell’1,75%, cioè oltre mezzo punto percentuale in meno.

Sembra poca roba, ma tradotto in euro significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato 944 milioni in più rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. Infatti, mentre al Nord sono stati trasferiti 1,629 miliardi in più nel 2017 rispetto al 2012, al Sud sono arrivati solo 685 milioni in più. Lo squilibrio ha permesso alle Regioni del Nord, non in Piano, di investire e assumere: le Regioni settentrionali, nel 2018, hanno speso 14 miliardi e 190 milioni per gli stipendi del personale sanitario a tempo indeterminato, nel 2019 c’è stato un incremento sino a 14 miliardi e 475 milioni.

Le Regioni del Sud, invece, per i contratti di medici, infermieri, operatori sanitari a tempo indeterminato hanno potuto spendere meno della metà, cioè 6 miliardi e 726 milioni nel 2018, divenuti 6 miliardi e 805 milioni nel 2019. Gli aiuti e i soldi vanno quasi sempre al Nord, è un dato di fatto.

COVID E PRESTITI

Persino durante l’emergenza Covid-19 è stato così: lo ha denunciato a maggio la Federazione autonomi bancari italiani (Fabi) che ha svolto uno studio su come e a chi sono stati elargiti i prestiti garantiti dallo Stato da 25 a 800mila euro sino a quel periodo.

Bene, il 50,7% era ad appannaggio di quattro regioni del Nord dove, però, era attivo solo il 38% di partite Iva e pmi italiane. Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna si erano assicurate oltre la metà dei finanziamenti con paracadute pubblico, ma in quelle zone del Paese opera, in proporzione, un numero di imprese e professionisti nettamente inferiore alla quota di crediti in arrivo grazie al decreto liquidità.

Nel resto del Paese, opera il 62% di soggetti economici, ma la quota di prestiti a fine maggio si era fermata al 49,3%.

Nulla di nuovo, d’altronde ogni giorno il Sud “perde” circa 170 milioni: a tanto ammonta, su base giornaliera, il bottino da 62,3 miliardi che ogni anno, dati del Sistema dei conti pubblici territoriali alla mano, viene sottratto al Sud e dirottato verso il Nord. Parliamo di circa 5,2 miliardi al mese di spesa pubblica allargata, non solo statale.


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