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L’insistenza di questo giornale sulla maladistribuzione delle risorse pubbliche fra Mezzogiorno e resto del Paese ha cominciato a percolare nella coscienza nazionale. La ‘questione meridionale’ non è più solo argomento di ponderosi saggi e pacati (non sempre) dibattiti; si è vestita di cifre, di miliardi, di addizioni e sottrazioni, e così facendo ha toccato il portafoglio, cioè a dire un nervo scoperto.

Ecco che la ‘cifra magica’ al centro del dibattito – i circa 60 miliardi di euro all’anno ‘sottratti’ al Sud – cominciano, come era da prevedere, a innescare accese contestazioni. Naturalmente, sia i proponenti della saldezza di quella cifra che i denigratori portano ognuno acqua al proprio mulino, con diverse giustificazioni e definizioni della spesa pubblica da ripartire fra le regioni italiane: aggiungi questo, togli quest’altro, tieni conto del costo della vita, ridefinisci il perimetro e i parametri della spesa… Confermando, insomma, l’antica battuta, secondo cui se si torturano i dati abbastanza a lungo gli si può far confessare qualsiasi cosa…

Un recente studio dell’Osservatorio CPI (Conti Pubblici Italiani) ha contestato i famosi ’60 miliardi’, cominciando col dire che «Innanzitutto, l’analisi è basata sui dati di spese ed entrate di fonte CPT (Conti Pubblici Territoriali a cura dell’Agenzia della Coesione) la cui somma per regioni è molto diversa dai totali nazionali ISTAT, un punto (di notevole gravità) che è già stato messo in evidenza dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio».

Salvo poi, nella riga seguente, a dire che la ragione della differenza sta nel fatto che i CPT considerano il Settore Pubblico Allargato (SPA), che include, oltre alle Amministrazioni pubbliche (PA) di cui ai calcoli dell’Istat, anche le aziende pubbliche, dalle grandi alle piccole (municipalizzate). Quindi il fatto che la somma per regioni di fonte CPT è molto diversa dai totali nazionali ISTAT non è un punto di ‘notevole gravità’, ma il semplice risultato di un diverso universo di riferimento. A proposito, chi si voglia prendere in carico un’analisi delle differenze fra i conti PA e i conti CPT, può rivolgersi al sito della Agenzia per la Coesione Territoriale, dove è possibile scaricare l’intera banca dati dei conti e una ponderosa guida metodologica (LEGGI).

Non si può accusare l’Agenzia di mancare di trasparenza…

E in effetti, nelle ‘Conclusioni’, lo studio del’Osservatorio CPI conclude – appunto – che la cifra dei 60 miliardi ‘sottratti’ ogni anno dal Nord al Sud «è vera soltanto se si considera l’intera P.A. allargata». Ma…, e qui veniamo alla sostanza delle controdeduzioni: quella cifra non tiene «conto che una larga parte delle sue spese non possono essere distribuite diversamente sul territorio (partecipate e pensioni)».

Cominciamo dalle partecipate (cioè le imprese pubbliche). Dai tempi della famosa ‘Programmazione’ di Giorgio Ruffolo, alle imprese pubbliche sono stati assegnati compiti di redistribuzione territoriale degli investimenti e della presenza in loco, nell’ospedale da campo di questi tempi e di questo Paese. Compiti ribaditi anche recentemente da norme e leggi che assegnano alle grandi imprese pubbliche percentuali di spesa per gli investimenti nel Mezzogiorno. Ma l’Osservatorio afferma che «considerare tutta la P.A. allargata è discutibile, in quanto include delle spese il cui meccanismo di allocazione è fondamentalmente il mercato e non una decisione politica». Non si capisce allora perché queste imprese si portino appresso l’aggettivo ‘pubbliche’. Poi, per quanto riguarda le municipalizzate, queste forniscono servizi pubblici, anche se sono fuori dal perimetro della PA, ed è quindi legittimo includerle nei conti SPA.

Veniamo alle pensioni. L’inclusione delle pensioni nella spesa per Regioni – si dice – non ha senso dato che lo Stato non può usare le pensioni a scopo redistributivo: queste dipendono dai contributi versati (beh, in parte – come ha argomentato Giuliano Cazzola, una buona parte delle pensioni pagate viene dalla fiscalità generale e non dai contributi versati – col sudore della fronte – da imprese e lavoratori). C’è del vero in questo argomento, ma l’argomento è a doppio taglio. Ci sono più pensioni pagate al Nord perché in passato ci sono stati (e ci sono ancora) maggiori salari e più occupazione al Nord. Ma più occupazione e più salari dipendono dal fatto che lo Stato, malgrado la famosa ‘coesione territoriale’ sia sempre stata presente nei programmi di tutti i Governi, non ha fatto abbastanza per ridurre la piaga del dualismo Nord-Sud. L’inclusione delle pensioni nella ripartizione territoriale della spesa si giustifica come un eco di questo fallimento, un triste testimone della minorità da sempre assegnata allo sviluppo del Mezzogiorno, che soffre da sempre di una inadeguata dotazione infrastrutturale.

Per quanto riguarda la spesa per interessi (che è compresa nei conti CPT), la sua inclusione non altera sostanzialmente i calcoli. Uno studio della Banca d’Italia sulla distribuzione territoriale della ricchezza finanziaria (costituita in gran parte dai titoli pubblici) suggerisce che la quota del Mezzogiorno sul totale è all’incirca eguale alla quota degli abitanti sul totale Italia.

Veniamo, infine, alla questione del livello dei prezzi. Secondo l’Osservatorio, il fatto di ignorare il più basso costo della vita al Sud «si traduce in ingenti trasferimenti da parte delle amministrazioni pubbliche dal Centro-Nord verso il Mezzogiorno». Ora, questo più basso costo della vita (che la Banca d’Italia ha quantificato in circa il 10%, tenendo conto dei fitti effettivi) vuol dire che lo stipendio di un dipendente pubblico – che, a parità di mansioni, è ovviamente identico in tutte le zone del Paese – ‘vale’ di più nel Mezzogiorno. Qui si innestano sottili questioni di metodo e di concetto. Ora che abbiamo imparato a distinguere fra Pil e benessere, è legittimo dire che un dato stipendio ‘vale’ di più, se altri elementi del benessere – qualità dei servizi pubblici, sicurezza, mobilità… – scarseggiano? E in ogni caso, il livello dei prezzi di cui si parla è quello del costo della vita. Ma la spesa non è fatta solo di stipendi: è fatta anche di investimenti, di acquisti di beni e servizi (il costo di una macchina per la risonanza magnetica o di una uniforme per un poliziotto è davvero più basso al Sud?). Non abbiamo i dati per una ‘parità di potere di acquisto’ per tutte le sfaccettature della spesa pubblica.

Ci sono molte pesanti evidenze della minorità del Mezzogiorno nella distribuzione territoriale della spesa; evidenze che potrebbero essere quantificate se il Governo procedesse davvero al calcolo dei ‘Livelli essenziali di prestazioni’ (Lep) previsti dalla legge 42/2009, e mai messi in opera. Ma non c’è bisogno dei Lep per fare semplici elaborazioni, già più volte presentate su questo giornale, sulla spesa pubblica per abitante in tema di istruzione, sanità, ambiente e territorio…

Cifre su cui pensioni o interessi o imprese pubbliche non incidono significativamente, ma che danno la misura di quanto il Sud sia stato penalizzato da molti anni a questa parte.


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