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Cambiano i nomi della aziende e cambiano i governi. Ma la tentazione di far entrare lo Stato nella Fiat resta. Né importa che oggi si chiami Stellantis e l’Italia, purtroppo, abbia un peso marginale nella geografia del nuovo gruppo da 180 miliardi di fatturato, 400mila dipendenti e 8 milioni di auto prodotte in un anno (in Italia appena 717 mila). La riscossa dello Stato imprenditore non poteva mancare l’occasione.

LA STORIA SI RIPETE

«Personalmente – dice il vice ministro Pd dell’Economia, Antonio Misiani – l’ho detto e lo ribadisco, non ritengo un tabù l’potesi di un ingresso pubblico nella nuova società, analogamente alla quota già posseduta dal governo francese, ma questo tema, a mio giudizio, viene dopo un ragionamento di politica industriale che va fatto per la produzione di veicoli e l’intero comparto automotive».

Il problema riguarda soprattutto l’indotto. «In Italia – dice Misiani – c’è un settore della componentistica importantissimo e fortemente interconnesso con le altre economie europee a partire dalle industrie automobilistiche tedesche: noi dobbiamo valorizzarlo e sostenerlo nel quadro competitivo globale».

Non è la prima volta che la sinistra italiana incrocia il suo cammino con i destini della Fiat. L’aveva già fatto negli anni ’70, ai tempi della crisi petrolifera, quando, con l’ala più radicale del sindacato, aveva immaginato “un nuovo modello di sviluppo” (in altre parole Torino doveva smettere di fabbricare auto).

Ci aveva riprovato nel 1980, durante lo sciopero dei 35 giorni, quando Enrico Berlinguer, alle porte di Mirafiori, aveva assicurato l’appoggio del Pci nel caso in cui il sindacato avesse occupato la grande fabbrica. Per tutta risposta ci fu la grandissima sconfitta rappresentata dalla marcia dei 40 mila. Una storia molto controversa.
Ora Misiani, ma anche Landini, segretario della Cgil, tornano sull’argomento proponendo l’intervento diretto dello Stato a imitazione del governo di Parigi che possiede il 6% di Stellantis.

Nella governance del gruppo è previsto anche un posto per i dipendenti. I sindacati francesi ne hanno nominato uno (Jacques de Saint Exupery), Gli eredi Agnelli, invece, hanno designato Fiona Claire Ciccone, capo del personale di Astrazeneca. Certo, c’è un po’ di differenza. Tuttavia ora è troppo tardi. Forse un governo più attento avrebbe aperto un negoziato con John Elkann quando da Torino hanno chiesto il finanziamento da sei miliardi con garanzia Sace. In realtà c’è stato solo un po’ di cicaleccio concluso con la garanzia generica che i fondi sarebbero stati investiti in Italia.

LA SCOMMESSA

Carlos Tavares, neo amministratore delegato del gruppo, ha confermato queste assicurazioni nell’incontro con i sindacati che si è svolto ieri. Ha promesso che i 55 mila dipendenti del gruppo in Italia non corrono rischi ed entro l’anno saranno lanciati 39 modelli a motore elettrico. Nessuno degli stabilimenti sarà chiuso.

Nemmeno Cassino, che attualmente funziona solo al 10% della capacità, visto che l’’impianto produce unicamente la Giulia, sogno mancato di Sergio Marchionne.
Tavares garantisce il rilancio di Alfa Romeo e di Maserati. Operazione molto difficile, visto che si andrà a scontrare con le corazzate tedesche. Marchionne ci aveva provato e riprovato senza successo. Si tratta delle auto che danno i margini più alti.

La scommessa è indispensabile, considerando che Peugeot non possiede marchi premium. La causa è una scelta scellerata del governo di Parigi che, alla fine della guerra, impose una super-tassa sulle auto di lusso. Un errore che pesa ancora su tutta l’industria francese. Non a caso Tavares ha cercato di rimediare con il marchio Ds e Luca De Meo, appena nominato capo di Renault, ha tirato fuori dalla naftalina il marchio Alpine con cui ha ribattezzato la squadra di Formula Uno.

Nessuno dei quattordici march idi Stellantis morirà, ha garantito Tavares. Nemmeno Lancia, il più a rischio di tutti, considerando che ha un solo modello in portafoglio (l’immortale Ypsilon) venduta solo in Italia. Fiat verrà riorganizzata, utilizzando il metodo già adottato con la Opel. Oggi la Corsa in Germania vende di più delle Volkswagen.


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