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A lato di questa discutibile (e certamente irresponsabile) crisi di governo sta facendo capolino un problema che era stato confinato nell’ambito di quelle politiche del rigore, che si diceva, persino aveva abbandonato. Si torna a parlare di pensioni. La Commissione, pur con le mani nei capelli al cospetto della procurata instabilità dell’Italia, ha ricordato a chi faceva finta di non sentire che le risorse destinate al nostro Paese nel quadro del NGEU non potranno essere impiegate in ristori e proroga all’infinito – fermo restando il blocco dei licenziamenti, della cig da Covid-19, ma oltre che ad investimenti dovranno assicurare delle riforme, quelle stesse indicate nelle Raccomandazioni rivolte all’Italia, tra cui al punto 4 risuona in modo netto quanto segue: ‘’Attuare pienamente le passate riforme pensionistiche al fine di ridurre il peso delle pensioni nella spesa pubblica’’.

Il governo lo sapeva benissimo, tanto da descrivere una situazione preoccupante persino nella Nadef. Infatti le previsioni erano rappresentate correttamente nel senso che ‘’continuano a scontare il sensibile aumento del numero di soggetti che accedono al pensionamento anticipato in virtù dei recenti cambiamenti normativi introdotti con la Legge di Bilancio 2019 e altri provvedimenti attuativi, tra cui Quota 100. Secondo la previsione a legislazione vigente – proseguiva il documento di finanza pubblica – una crescita della spesa per pensioni più contenuta rispetto a quella dell’economia contribuirà a far scendere il rapporto tra tale spesa e PIL, dal 17,1 per cento del 2020 al 16,2 per cento nel 2023. Cionondimeno, la spesa per pensioni a legislazione vigente nel 2023 risulterà più alta di 0,8 punti percentuali in rapporto al PIL in confronto al 2019’’.

Ma eravamo in zona pre Covid, l’evento che ha segnato – in Italia e nel mondo – un cambio di epoca, tanto che gli anni precedenti il 2020 saranno seguiti da un acronimo a.C., mentre quelli seguenti da un d.C. A commentare gli effetti della pandemia sui sistemi pensionistici ci ha pensato recentemente l’OCSE, la quale non ha esitato a calcolare tutti gli aspetti, ivi compreso quelli relativi ai possibili risparmi derivanti dalla maggiore mortalità tra gli anziani (e quindi tra i pensionati). Per quanto riguarda le finanze pensionistiche, i tassi di mortalità più elevati, soprattutto tra le persone anziane, ridurranno la durata media dei pagamenti pensionistici rispetto a quanto previsto prima del COVID-19.

L’impatto finale sul numero di morti e sull’accorciamento della vita delle diverse coorti rimane, tuttavia, soggetto a una grande incertezza e potrebbe differire molto da paese a paese. Secondo l’Organizzazione dei paesi industrializzati le morti in eccesso hanno aumentato il tasso di mortalità di circa il 6% nel 2020 rispetto al 2019; una stima, avverte il Rapporto, soggetta a ampie revisioni a seconda degli sviluppi futuri della pandemia. Ma sarà sufficiente l’eccesso di mortalità da pandemia ad abbassare la spesa pensionistica e a ridurre le passività dei sistemi previdenziali?

Secondo l’Ocse le pensioni resisteranno anche al virus così come hanno resistito ai tentativi di riforma, procedendo – certamente in Italia – con il passo del gambero: uno in avanti, due all’indietro. L’eccesso di mortalità dovuto al COVID-19, osservato finora, ha abbassato – certifica il Rapporto – solo leggermente le passività pensionistiche previste e ridurrà quindi solo leggermente la spesa pensionistica nel lungo termine. Una mortalità più alta del 6%, ad esempio, si tradurrebbe in un numero inferiore di circa lo 0,2% di persone di età pari o superiore a 65 anni alla fine del 2020 e hanno un impatto simile sulla spesa pensionistica nel 2020. Supponendo che la spesa pensionistica pubblica sia pari all’8% del PIL (la media tra i paesi OCSE), una diminuzione dello 0,2% della spesa è pari allo 0,016% del PIL (più che un ‘’taglio’’ un amichevole buffetto).

Inoltre, lo scoppio della pandemia COVID-19 ha generato una grande perturbazione dei mercati del lavoro. Poiché l’attività economica si è deteriorata o addirittura interrotta in alcuni settori, i tassi di disoccupazione sono aumentati (da noi anche col blocco dei licenziamenti sono andati perduti circa 700mila posti di lavoro). In risposta, i paesi hanno adottato misure di sostegno al reddito per i lavoratori su di una scala senza precedenti. Queste misure includono l’espansione dei programmi di mantenimento del rapporto di lavoro in più della metà dei paesi OCSE, facilitando l’accesso ai sussidi di disoccupazione in due terzi di essi e trasferimenti di denaro alla popolazione, in particolare ai lavoratori autonomi, in circa la metà dei paesi OCSE.

Alcuni paesi hanno anche aumentato i benefici o fornito un sostegno temporaneo ai pensionati, in particolare a quelli a basso reddito. Rispetto alle precedenti recessioni, l’ampliata copertura delle misure di sostegno del reddito e dei sussidi di disoccupazione ha fornito una migliore protezione dell’occupazione e del reddito da lavoro, e quindi anche della pensione nei regimi legati al reddito. Oltre alle misure di sostegno del reddito, almeno la metà dei paesi OCSE ha differito, sospeso o sovvenzionato i contributi pensionistici pubblici.

Recentemente Guglielmo Loy, presidente dell’organo di vigilanza dell’Inps ha lanciato, in una intervista, un grido d’allarme sui conti dell’Inps, prefigurando un disavanzo di 20 miliardi di cui 15,7 attribuibili alla cig da Covid-19. Poi le parole del presidente del Civ si sono trasformate in pietre: l’applicazione della misura straordinaria ‘’è stata anticipata da Inps attingendo ai suoi fondi’’. In sostanza, per interpretare queste affermazioni si deve pensare che Loy si riferisca ad un problema di cassa, in quanto i vari stanziamenti contenuti nella sequela dei decreti l’Inps se li ritroverà, nel bilancio di competenza come crediti da parte dello Stato. Ma se ciò che è scritto in bilancio, sia pure tra le poste attive, non si ritrova in cassa, sono guai.


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