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Illustrazione di Roberto Melis

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Servizi all’infanzia insufficienti per l’Italia anche a livello globale. E’ quanto emerge dal nuovo rapporto dell’Unicef, secondo il quale i servizi per l’infanzia di qualità a costi contenuti non solo sono inaccessibili in molti dei Paesi più ricchi del mondo e rappresentano un ostacolo per i genitori, ma finiscono per aggravare le disuguaglianze socioeconomiche all’interno dei Paesi stessi.

“Where Do Rich Countries Stand on Childcare? – A che punto è l’assistenza all’infanzia nei paesi ricchi?” – pubblicato dall’Ufficio di Ricerca Unicef Innocenti – classifica i Paesi dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e dell’Unione Europea (EU) sulla base delle loro politiche nazionali di servizi per l’infanzia e di congedo parentale. Queste politiche includono l’accesso dei bambini (ai servizi,) l’accessibilità economica e la qualità dei servizi per l’infanzia dalla nascita all’età scolare.

Tre aspetti che – è bene ricordarlo – per l’entità di investimenti tra Nord e Sud hanno finora configurato l’Italia non solo come un Paese a due o più velocità, ma come due Paesi lontani e diversissimi. Seppur confinanti e, almeno sulla carta, con identici diritti di cittadinanza.

Ecco perché il dato che secondo l’Unicef il nostro Paese si collochi 15esimo su 41 paesi esaminati per i servizi all’infanzia – 28esimo per i congedi parentali retribuiti e per l’accesso dei bambini ai servizi per l’infanzia e 14esimo per la qualità dei servizi – va letto attraverso le percentuali dell’offerta Nord/Sud per asili nido, mense e servizi alla famiglia.
Numeri che, se fino ad oggi hanno risentito nel Mezzogiorno della colpevole ed illegittima ripartizione della spesa storica – la stessa che ha consentito per anni che per i nidi si spendessero 88 euro l’anno per un bambino residente in Calabria e 2.209 euro l’anno per la Provincia Autonoma di Trento – si avvierebbero verso un cambio di rotta con la “rivoluzione”, sancita nella settimana scorsa dalla Commissione tecnica per i fabbisogni standard del ministero dell’Economia e delle finanze, proprio del superamento della spesa storica per i servizi sociali dei Comuni. Che dovrà contribuire ad una nuova ripartizione delle risorse pubbliche e, soprattutto, all’avvio del raggiungimento dei Livelli essenziali delle prestazioni ed alla conseguente riduzione del gap tra Nord e Sud, che proprio per gli asili nido (ed i servizi sociali) ha toccato la forbice più ampia ed è valso all’Italia raccomandazioni e sanzioni da parte di organi nazionali ed internazionali, prima fra tutte l’Onu.

“Per dare ai bambini il miglior avvio alla vita, dobbiamo aiutare i genitori a costruire un ambiente stimolante e amorevole, che è fondamentale per l’apprendimento, il benessere emotivo e lo sviluppo sociale dei bambini – sottolinea Henrietta Fore, Direttore generale dell’Unicef – Gli investimenti dei Governi in politiche per la famiglia, fra cui l’assistenza all’infanzia, assicurano che i genitori abbiano il tempo necessario, le risorse e i servizi di cui hanno bisogno per supportare i loro figli ad ogni passo del loro sviluppo”.

Un approccio a cui l’Italia dovrà guardare con sempre maggiore continuità, soprattutto sul versante giovani e donne, considerato che il nostro è il Paese europeo dove si registra il più alto tasso di abbandono del posto di lavoro per esigenze di cura famigliare (non lavora per tale motivo il 13,3% delle donne italiane, contro l’8,2% della media europea) e dove si registrano i livelli di natalità più bassi.

Secondo l’Unicef, nelle famiglie ad alto reddito quasi la metà dei bambini sotto i 3 anni riceve istruzione e cure per la prima infanzia, rispetto a meno di 1 bambino su 3 nelle famiglie a basso reddito. Dati che corrispondono alla discriminazione tra Nord e Sud d’Italia, sia riguardo il tessuto produttivo ed il reddito procapite interno, sia riguardo la possibilità che tale reddito continui ad abbassarsi nel Mezzogiorno anche a causa dell’abbandono lavorativo ed dell’alta percentuale di lavoro precario e part time a carico delle donne.

Uno sguardo al resto del mondo aiuta a capire meglio come per il nostro Paese il problema non sia tanto e solo quello della quantità di soldi da stanziare e di spesa pubblica da sostenere, quanto – e la “rivoluzione” dell’abbandono della spesa storica per i servizi sociali dei Comuni dovrebbe segnare da questo punto di vista un’altra inversione di passo – una allocazione delle risorse (anche aggiuntive) secondo fabbisogni e progetti di sviluppo in grado di uniformare i territori e la risposta ai bisogni dei loro cittadini.
Se infatti – secondo l’Unicef – Lussemburgo, Islanda, Svezia, Norvegia e Germania si collocano ai primi posti per quanto riguarda i servizi per l’infanzia tra i paesi ad alto reddito, mentre Slovacchia, Stati Uniti, Cipro, Svizzera e Australia occupano i posti più bassi, i Paesi che occupano i posti più alti nella classifica del Rapporto sono quelli che uniscono l’accessibilità economica alla qualità dell’assistenza all’infanzia organizzata. Offrendo, nello stesso tempo, congedi lunghi e ben retribuiti sia alle madri che ai padri, abbassando la depressione materna e aumentando l’uguaglianza di genere.

Il rapporto Unicef, oltre a mostrare come le chiusure dei servizi per l’infanzia causate dal COVID-19 abbiano accentuato per i genitori le difficoltà di gestione tra cura dei figli e responsabilità lavorative, in diversi casi fino alla perdita del lavoro, offre poi importanti linee guida sulla collaborazione tra i governi e il settore privato per costruire politiche per i servizi per l’infanzia di qualità, accessibili, flessibili e a costi contenuti, disponibili per tutti i bambini, indipendentemente dalla situazione familiare; accessibili alle famiglie a basso reddito e in grado di garantire gli standard nel servizio.

“Dare ai genitori il supporto di cui necessitano per fornire ai bambini fondamenta solide – ha aggiunto il Direttore generale Unicef, Fore – non è solo una buona politica sociale, ma anche una buona politica economica”.


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