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Unicredit

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Le grandi partite della finanza milanese si giocano in estate. Come accadeva ai tempi di Enrico Cuccia che sceglieva agosto per scrivere il contratto dell’unione tra Pirelli e Dunlop o Mario Schimberni, gran capo di Montedison che usava le ferie degli altri per scalare l’impero costruito da Anna Bonomi e custodito male dal figlio Carlo.

Anche stavolta il potere ai piani alti del sistema bancario e industriale italiano si muove con il caldo attraverso due operazioni clamorose: la fusione annunciata fra Unicredit ed Mps e i problemi di Urbano Cairo, patron di Rcs, su cui pendono due risarcimenti per complessivi 600 milioni uno sulla società che pubblica il Corriere della Sera e l’altro che minaccia direttamente il patrimonio personale dell’imprenditore.

A fare ricorso è stato il fondo Blackstone che si è visto sfumare, per un intervento a gamba tesa dell’editore del Corriere della Sera (ma anche proprietario di La7 e presidente del Torino). Se gli americani dovessero vincere la causa si scatenerebbe uno tsunami che, inevitabilmente porterebbe ad un cambio di proprietà in via Solferino.

Intanto c’è da dire che l’unione fra Unicredit ed Mps avrà riflessi importanti anche nel Mezzogiorno. Potrebbe addirittura nascere una nuova banca con un forte radicamento nel sud. Sarebbe una novità assoluta dopo la scomparsa del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia. Tornerebbe in vita una forte presenza creditizia in un ‘area che da questo punto di vista si sta desertificando.

Per capire bisogna ricordare che Unicredit ed Mps vantano una forte presenza meridionale frutto delle fusioni di questi anni. In particolare il gruppo guidato oggi da Andrea Orcel dopo l’incorporazione di Capitalia ha ricevuto in dote le agenzie del Banco di Sicilia che a sua volta aveva ereditato quelli della Cassa di Risparmio Vittorio Emanuele II. Secondo le prime stime il gruppo potrebbe mettere sul mercato circa 150 sportelli, collocati principalmente nelle regioni del Sud (per lo più Sicilia e Puglia).

Se la scelta fosse confermata, l’acquirente naturale sarebbe il Mediocredito Centrale che lo scorso anno, con l’acquisto della Popolare di Bari, ha posto le basi di un gruppo creditizio radicato nel Mezzogiorno. Sempre secondo ipotesi allo studio il trasferimento potrebbe riguardare anche parte del personale delle direzioni centrali (che oggi occupano circa 4.900 risorse a livello complessivo), anche se per il momento non circolano numeri o progetti concreti in merito.

Se su tutti questi delicati aspetti verrà raggiunto un accordo (soggetto comunque alle autorizzazioni di Bce-Bankitalia, Ivass, Consob e Antitrust), l’operazione sarà sottoposta alle rispettive assemblee di Unicredit nel corso dell’autunno per arrivare al closing per fine anno.

Sempre in base alle ipotesi l’ultima tappa dovrebbe essere la ricapitalizzazione dell’istituto senese: agli attuali azionisti verrebbero richieste nuove risorse per un importo stimato tra 2 e 2,5 miliardi attraverso un’operazione a mercato che non dovrebbe incontrare particolari problemi.

Se questa è la road map che circola in Via XX Settembre e nelle banche d’affari, occorre ricordare che le incognite sono ancora molte e che il diavolo sta nei dettagli. Di certo però che da oggi seduto al tavolo c’è un interlocutore disposto a lavorare sulla privatizzazione del Monte. Una notizia accolta molto positivamente dal governo e dal mercato.

Unicredit, pur nella sua cautela, ha delineato anche le potenzialità industriali del progetto. L’operazione, spiegava infatti la nota della banca, permetterebbe a piazza Gae Aulenti di accelerare i piani di crescita organica e agevolare il raggiungimento di ritorni sostenibili superiori al costo del capitale. 

Mps potrebbe contribuire, subordinatamente alla definizione del perimetro dell’operazione, circa 3,9 milioni di clienti, 80 miliardi di crediti alla clientela, 87 miliardi di depositi della clientela, 62 miliardi di masse in gestione e 42 miliardi di masse in amministrazione.

L’operazione permetterebbe al gruppo di rafforzare il posizionamento competitivo in Italia e in particolare nel Centro-Nord, dove si trova il 77% degli sportelli di Mps contribuendo fra l’altro a una crescita della quota di mercato in Toscana di 17 punti percentuali, in Lombardia e in Emilia Romagna di 4 punti percentuali e in Veneto di 8 punti percentuali.

«Tale operazione», spiega inoltre la nota, «porterebbe inoltre un incremento rilevante della profittabilità prospettica, preservando al contempo la posizione di capitale e migliorando la qualità dell’attivo e il profilo di rischio del gruppo su base pro forma. Qualsiasi potenziale operazione avverrebbe nell’ambito dell’esistente focalizzazione da parte del gruppo su liberazione del valore interno che rimane e rimarrà una priorità».

Secondo quanto appreso dal perimetro dovrebbero uscire 6,2 miliardi di contenzioso legale, 2-2,5 miliardi di crediti deteriorati e forse anche i crediti in bonis ad alto rischio. Per quest’ultima categoria di attivi è anche possibile una soluzione diversa, simile a quella messa a punto per  Intesa durante il salvataggio delle banche venete: lo Stato potrebbe concedere a  Unicredit un’opzione put con un tetto e un arco temporale predefiniti per rispedire indietro i portafogli dalla qualità dubbia. La soluzione è comunque ancora allo studio, ma l’importo potrebbe avvicinarsi a 1,5-2 miliardi. Tutti gli asset scartati confluirebbero in una bad company che provvederebbe poi a liquidarli nel tempo. Amco si farebbe invece carico delle sofferenze , come accaduto in buona parte degli ultimi salvataggi bancari.

Ancora aperta la partita al Corriere della Sera. Cairo ha impugnato la vendita del palazzo di via Solferino sostenendo che Blackstone nel 2013 l’aveva acquistato per 120 milioni sfruttando le condizioni di difficoltà del gruppo.

Nel 2018 avrebbero voluto rivenderlo per 250 milioni ad Allianz ma Cairo si era opposto chiedendo un arbitrato. Una mossa che non era molto piaciuta a Carlo Messina gran capo di Intesa e principale finanziatore di Cairo. I dubbi del banchiere erano stati suffragati dalle decisioni degli arbitri che avevano ritenuto la vendita del 2013 assolutamente regolare. Per sottolineare il dissenso di Intesa c’erano state le dimissioni di Gaetano Miccichè, presidente della divisione Cib.Imi.

Il mese scorso il fondo Usa Blackstone ha chiesto a un tribunale di New York di unire le due cause legate alla compravendita degli immobili di via Solferino, chiedendo danni per un totale di 600 milioni di dollari. La vicenda ha inizio nel 2018, quando  Rcs  ha chiesto alla camera arbitrale di Milano di annullare la vendita del complesso immobiliare, avvenuta nel 2013 quando il gruppo aveva un diverso azionariato. Rcs riteneva che il fondo avesse pagato un prezzo troppo basso, sfruttando il periodo di difficoltà finanziaria in cui si trovava il gruppo editoriale.

Lo scorso maggio la camera arbitrale ha deciso a favore di Blackstone, rigettando le richieste avanzate da  Rcs Da quel momento è ripartita la contro-causa che Blackstone aveva avviato negli Usa e che era stata temporaneamente sospesa in attesa dell’arbitrato. Rcs ha intanto impugnato i lodi innanzi alla Corte d’Appello di Milano


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