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Il ministro Orlando

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Il dubbio c’era venuto quando avevamo letto e commentato la nota sulle linee generali della riforma degli ammortizzatori sociali che il ministro del Lavoro Andrea Orlando aveva inviato alle parti sociali in vista della riunione in video conferenza del 9 agosto scorso. “Ma questo ministro – c’eravamo chiesti – in un momento in cui – variante Delta permettendo – si annuncia una ripresa superiore ad ogni previsione, pensa soltanto alle aziende che chiudono e cerca di ‘tirare il collo’ alla cig per ‘mitridatizzare’ quei dipendenti il più a lungo possibile legandoli alle spoglie mortali dell’impresa?”

Da Orlando tutto sommato c’era da aspettarselo fin da quando provò con un emendamento in zona Cesarini a venire incontro alle richieste dei sindacati sulla proroga del blocco dei licenziamenti scatenando le ire della Confindustria che furono placate solo dalla accorta mediazione del presidente Draghi. Ci aveva convinto, invece, la ‘’correzione di rotta’’ impressa dal ministro quando, dopo lo sblocco parziale del divieto di licenziamento, i sindacati preconizzavano milioni di esuberi accanendosi col supporto dei media sulle chiusure, magari prive di fair play, annunciate da alcune aziende, in particolari multinazionali.

“Allo stato attuale, in linea di massima – aveva detto Orlando in un’intervista a Il Foglio – l’andamento (dei licenziamenti, ndr) non individua una dinamica particolarmente diversa da quella precedente alla pandemia”.

“Innanzi tutto – aveva confermato Orlando – il blocco non ha mai impedito i licenziamenti per cessazione delle attività. Inoltre – aveva aggiunto – la cassa Covid è stata una specie di anestetico che ha rallentato alcuni orientamenti e alcune decisioni che probabilmente le imprese avevano già in mente”.

Poi dando sfoggio di un serietà ammirevole il ministro aveva smentito le analisi fasulle di quanti collegavano il caso delle nuove vertenze aperte allo sblocco dei licenziamenti. Whirlpool-Embraco, Gkn, Gianetti ruote “sono aziende che scontano problemi pregressi”.

Allora perché le politiche del lavoro messe nero su bianco sembrano rivolte prioritariamente a risolvere i problemi di queste aziende? Abbiamo già parlato dell’aggiunta di due nuove causali – prospettata cessazione dell’attività e liquidazione giudiziaria – che si aggiungono a quelle tradizionali della cig, deviandone le finalità. Perché la cig nelle sue varie tipologie (quella straordinaria verrebbe estesa anche alle aziende al di sotto dei 15 dipendenti) interviene nelle fasi di transizione da un particolare assetto dell’azienda ad un altro derivante da processi di risanamento e riorganizzazione; mentre nella proposta Orlando, in forza delle due nuove causali, si trasforma in una sorta di marcia funebre che accompagna i dipendenti fino all’eterno riposo dei loro posti di lavoro. Che questa sia la nuova politica del Lavoro, made by Orlando; trova conferma in una bozza circolante del decreto contro le delocalizzazioni.

A leggere le norme si scopre anche a quali imprese sono indirizzate, tanto che, se prenderà forma, il provvedimento sarà chiamato decreto Whirlpool. Cominciamo a spiegarne i contenuti punto per punto:

1) i soggetti: le imprese che al 1° gennaio dell’anno in corso occupano almeno 250 dipendenti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e che intendono procedere alla chiusura di un sito produttivo situato nel territorio nazionale con cessazione definitiva dell’attività per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza.

2) gli obblighi: queste imprese sarebbero tenute a dare comunicazione preventiva con l’indicazione delle ragioni economiche, finanziarie, tecniche o organizzative del progetto di chiusura, il numero e i profili professionali del personale occupato e il termine entro cui è prevista la chiusura.

3) il piano: un ulteriore adempimento consisterebbe nella presentazione di un piano con le azioni programmate a) per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica dei possibili esuberi, quali la ricollocazione presso altra impresa, le misure di politica attiva del lavoro, quali servizi di orientamento, assistenza alla ricollocazione, formazione e riqualificazione professionale, finalizzati alla rioccupazione o all’autoimpiego; b) le prospettive di cessione dell’azienda o dei compendi aziendali con finalità di continuazione dell’attività, anche mediante cessione dell’azienda, o di suoi rami, ai lavoratori o a cooperative da essi costituite; c) gli eventuali progetti di riconversione del sito produttivo, anche per finalità socio-culturali a favore del territorio interessato; d) i tempi, le fasi e le modalità di attuazione delle azioni previste.

4) L’esame: a questo punto entrerebbe in campo una sibillina ‘’struttura per la crisi della impresa’’ la quale dovrebbe terminare l’esame del piano entro trenta giorni dalla sua presentazione.

5) L’imprimatur: a medesima struttura, sentite le organizzazioni sindacali e l’Anpal, approverebbe il piano qualora dall’esame complessivo delle azioni in esso contenute risultassero sufficienti garanzie di salvaguardia dei livelli occupazionali o di rapida cessione dei compendi aziendali.

6) La licenza: con l’approvazione del piano, l’impresa assumerebbe l’impegno di realizzare le azioni in esso contenute nei tempi e con le modalità programmate e a effettuare le comunicazioni previste. La procedura di licenziamento collettivo non potrebbe essere avviata prima della conclusione dell’esame del piano.

7) Le sanzioni: sarebbero previste pesanti penalizzazioni economiche nel caso in cui l’azienda non presentasse il piano o procedesse alla chiusura nonostante la sua mancata approvazione.

Che dire? Qualcuno sostiene che essendo molto modesto il numero delle aziende soggette all’applicazione degli adempimenti del decreto, non dovrebbero esserci particolari problemi. Ma che cosa penserebbe, alla luce di queste norme, una impresa straniera che volesse investire in Italia? Si è visto mai che un’azienda che intenda chiudere “per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza’’ debba chiedere il permesso? Anche un’azienda sana ed efficiente può trovarsi in difficoltà per ragioni di mercato, soprattutto se è parte di un gruppo multinazionale costretto a ridurre la produzione o, perché no?, a cercare condizioni più favorevoli altrove. L’economia internazionale si basa sulla mobilità delle persone, dei capitali, delle imprese. Noi non siamo i più furbi. Porre vincoli alla mobilità è un’arma a doppio taglio. Ad azione corrisponderebbe una reazione uguale e contraria, perché gli altri Paesi farebbero lo stesso con le delocalizzazioni delle imprese italiane. Quando Sergio Marchionne decise di riportare in Italia produzioni e prodotti dalla Polonia, quelle aziende chiusero i battenti ‘’per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza”.


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