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La diplomazia ha evitato la catastrofe. Ma quanto potrà durare? La partenza della seduta di ieri era caratterizzata dalla paura di una guerra senza fine. La conclusione è stata più ottimista sui primi segnali dalla trattativa Russia-Ucraina. In mezzo a questi contrasti i mercati hanno vissuto la quinta giornata di guerra. Le Borse europee sono apparse tendenzialmente negative. Wall street, invece, meno pessimista.

Gli operatori hanno guardato soprattutto ai primi effetti delle sanzioni sull’economia di Mosca. Hanno pagato pegno le imprese europee più “esposte” ai possibili effetti del blocco del sistema dei pagamenti internazionali. Così la Borsa di Milano è stata di qualche frazione la peggiore tra i maggiori listini del Vecchio Continente, a causa della forte incidenza del settore bancario su Piazza Affari. La perdita finale è stata dell’1,3%, comunque ampiamente sopra i minimi di giornata quando sono stati registrati ribassi superiori ai tre punti percentuali.

Sullo stesso piano Parigi, con Francoforte in calo finale dello 0,7% e Londra dello 0,4%. Piatta Madrid, mentre Amsterdam ha concluso in fiducia con un piccolo rialzo. Lo spread tra Btp e Bund è sceso a 157 punti. La seduta, infatti, è stata positiva per tutti i titoli di Stato percepiti come beni rifugio nell’attuale clima di incertezza. Il rendimento del decennale italiano è sceso all’1,70% scommettendo sul fatto che la Bce possa allungare la durata dei sostegni monetari. Togliere i puntelli nel bel mezzo delle cannonate potrebbe fermare la ripresa economica.

Nonostante la Russia abbia tenuto chiusa la Borsa di Mosca per evitare uno scivolone senza precedenti, l’ampiezza della caduta si può intuire dall’andamento dei ‘depositary receipt’ (certificati che rappresentano le azioni di una società estera) di alcuni grandi gruppi russi quotati a Londra. Oltre che dagli ‘Etf’ che replicano l’andamento di indici azionari. Sulla piazza londinese, un gruppo come Sberbank ha perso il 74%, Gazprom il 51%, Lukoil il 62%, Rosneft il 42%. L’Msci Russia, uno degli indici principali della Borsa di Mosca, ha segnato perdite ‘virtuali’ oltre il 23%.

Male anche il rublo, che ha toccato i suoi minimi storici nonostante la Banca centrale russa abbia alzato i tassi d’interesse, con la Russia che, secondo i dati Ice sui Credit Default Swap (Cds), ha il 56% delle probabilità di insolvenza sul proprio debito pubblico. I primi segnali dalle trattative in Bielorussia, oltre che attenuare le perdite delle Borse, hanno comunque sgonfiato le quotazioni del gas dopo una prima impennata: ad Amsterdam il prezzo del metano è sceso sotto i 100 euro al megawattora dopo un massimo a quota 128. Il petrolio si è mosso al rialzo sui 95 dollari al barile ma senza eccessivi strappi, sostanzialmente calmo l’oro, mentre l’euro ha ceduto circa mezzo punto percentuale sul dollaro.

Nel calderone dei rialzi sono finite anche le materie prime agricole considerando che Ucraina e Russia sono fra i primi produttori di cereali. “La prima settimana di guerra in Ucraina ha portato a un aumento del 13% per il grano tenero e al 29% per il mais a livello mondiale”, afferma Cai (Consorzi Agrari d’Italia). Parigi, principale mercato europeo del settore, segna un aumento di 20 euro a tonnellata per il grano tenero (+7%) e di 30 euro per il mais (+10%). Rispetto alla chiusura di lunedì, alla vigilia dell’attacco russo, il grano tenero è salito da 274 euro a tonnellata agli attuali 310 euro (+13%) mentre il mais è passato da 247 euro a tonnellata a 320 euro (+29%).

Secondo le stime di Consorzi Agrari d’Italia il prezzo dei prodotti agricoli strettamente dipendenti dalle importazioni da Russia e Ucraina è destinato a salire ulteriormente, mentre al momento non si registrano variazioni sul grano duro, il cui valore risente soprattutto della mancata produzione in Canada e dei rincari dei costi di produzione.

L’Italia, secondo un’analisi Coldiretti, importa il 64% del grano tenero per il pane e i biscotti, il 44% di grano duro necessario per la pasta, senza dimenticare il mais e la soia fondamentali per l’alimentazione degli animali e per le grandi produzioni di formaggi e salumi Dop, dove con le produzioni nazionali si riesce a coprire rispettivamente il 53% e il 73% del fabbisogno nazionale.


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