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Prima o poi un Presidente lo eleggeranno. Oggi o al massimo domenica. Ma per sgombrare le macerie che una settimana di scrutini inutili da parte dei Grandi Elettori e di prove tanto sciocche quanto muscolari e/o furbesche di sedicenti leader che dovrebbero offrire ai cittadini l’immagine di una classe politica capace assumersi la sua principale responsabilità, e cioè individuare un capo di Stato punto di riferimento del Paese, e che invece si dilania e mostra tutta la sua insufficienza, ce ne vorrà assai di più. Sempre che sia una operazione fattibile perché anche per sgombrare i detriti occorre una certa perizia.

Partiamo dalla fine. Nel mentre finalmente arrivano i contatti diretti tra leader, se davvero la soluzione non maturasse e i capipartito salissero sul Colle per chiedere in ginocchio a Sergio Mattarella di ripensarci e fare il bis, solo formalmente lo spartito sarebbe lo stesso suonato in occasione della rielezione di Giorgio Napolitano.

In realtà sarà molto peggio. Allora il sistema politico veniva fuori da un terremoto all’inizio della legislatura che aveva divelto le basi della governabilità, radendo al suolo il bipolarismo che aveva imperato per quattro lustri e costringendo a far posto al terzo polo grillino che aveva come obiettivo la distruzione di ciò che di quell’eredità politica rimaneva. Un vero choc che portò all’affondamento prima di Franco Marini e poi di Romano Prodi, per infine rifugiarsi su quello che non era mai accaduto prima.

Stavolta sarebbe peggio. Non c’è alcuno choc politico da riassorbire, c’è una maggioranza che più larga non si può con dentro gli epigoni di quella palingenesi voluta e mai attuata, con alla guida la personalità più importante e significativa che l’Italia può offrire. Nel 2013 fu un colpo gravissimo; adesso è la dimostrazione che la politica non ha nulla da offrire se non imperizia, approssimazione, velleità.

E infatti se come detto alla fine un presidente si eleggerà, ciò che si è pericolosamente incrinata è la coalizione miracolosamente allestita intorno a Mario Draghi e avviata con un colpo di genio da parte di Mattarella. Basta considerare che i leader di quella maggioranza non sono stati capaci di incontrarsi neppure una volta tutti insieme per elaborare uno straccio di strategia per il Quirinale.

Solo contatti informali, veleni sparsi al telefono, sospetti e furbizie sciorinate davanti ai microfoni tv e ai taccuini dei giornalisti. Sembra incredibile. Compreso il fatto che ci sia chi sostiene che in fondo si può continuare come se nulla fosse, fosse stato o sarà. Dopo una giornata sulle montagne russe, Conte, Letta e Salvini finalmente si vedono faccia a faccia: forse risolutivo. Dopo un faccia a faccia tra Draghi e Salvini.
Le macerie sono tante. Rivolgendo indietro il nastro delle ultime 24 ore si stagliano in tutta la loro corposità.

La voglia del centrodestra di andare alla prova di forza sulla presidente del Senato (sic!) Elisabetta Casellati è stata figlia del pressing di Fdi che ha un solo, esplicito, obiettivo: dimostrare che l’unica uscita possibile sono le elezioni anticipate. Matteo Salvini ha aderito a questa impostazione “da opposizione” dopo aver sorretto per un anno il tentativo di Draghi: un’inversione a U che la dice lunga su come andrà (o non andrà) avanti la maggioranza di larghe intese.

Lo schianto della Casellati ha divelto le ultime, residuali trincee del centrodestra, confermando che da quella parte esiste un’area radicale pronta a qualunque avventura e un segmento più moderato che non riesce a individuare un candidato e ad esprimere una convincente visione identitaria. Come un simile aggregato possa presentarsi agli elettori chiedendo i voti per governare, è un mistero.

Ma è lo stesso leit-motiv che contraddistingue il fronte opposto. Enrico Letta è stato abile a giostrarsi tra il fatto che il centrodestra non aveva alcun diritto di prelazione ma che comunque doveva indicare un nome. Mossa obbligata per coprire il fatto che il suo schieramento un candidato non era in grado di esprimerlo vista l’indisponibilità dei Cinquestelle e soprattutto di Giuseppe Conte a convergere su Mario Draghi. E anche da questa parte un’alleanza elettorale si fatica a capire su cosa possa cementarsi.

La conseguenza è stata un alternarsi, questo sì bipartisan, di schede bianche o astensioni: il manifesto delle reciproche impossibilità.
In sintesi. Oggi o domani, sperabilmente, si saprà chi sarà il successore di Mattarella che forse dovrà riaprire gli scatoloni e non cambiare indirizzo di residenza. Sarà il tentativo di congelare una situazione che non è stata capace di evoluzione, nella speranza che tutto proceda com’è adesso fino al termine naturale della legislatura ma sapendo che così non può essere perché i pozzi della fiducia reciproca nella maggioranza sono stati avvelenati con faciloneria mista a irresponsabilità. Oppure i Grandi Elettori convergeranno su un altro nome: Casini, Belloni o chissà. Forse perfino Draghi, scelta migliore fin dall’inizio e forse opzione più adeguata per rivitalizzare una coalizione alla canna del gas con un afflato unitario all’ultimo giro.

Ma in quel caso ci sarà stato lo zampino di un Berlusconi sperabilmente rimesso in salute, può cambiare verso al pantano in cui si trova il centrodestra. Altrimenti? “Nel segreto dell’urna tutto può succedere”, chiosa Luigi Brugnaro, sindaco di Venezia e patron di Coraggio Italia. Ha ragione. Ed è una consapevolezza che fa venire i brividi.


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