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Una “bolletta logistica” da 13 miliardi l’anno. È la tassa che le imprese italiane devono pagare per l’arretratezza delle infrastrutture, con un impatto particolarmente pesante per l’agroalimentare e per il Mezzogiorno.

Nel 2020 l’export dell’agroalimentare made in Italy ha segnato, pur nell’anno della pandemia, una crescita dell’1,4%, superando i 46 miliardi, in assoluta controtendenza rispetto agli altri settori, ma la Spagna ha registrato un aumento superiore di quattro volte con prodotti come l’ortofrutta, vanto del Sud.

Il ritardo infrastrutturale rappresenta uno dei principali ostacoli allo sviluppo del potenziale economico del nostro Paese soprattutto per quei settori, come l’agroalimentare, in cui la competizione si gioca sulla qualità, ma anche sui costi e sulla velocità di raggiungere i mercati.

Da uno studio realizzato dal centro studi Divulga emerge che la qualità delle dotazioni infrastrutturali nazionali è al di sotto del livello europeo. L’Italia è indietro nella Ue in tutte le modalità di trasporto, ferroviario, stradale e marittimo.

In un Paese con una posizione strategica al centro del Mediterraneo, forte della tradizione delle Repubbliche marinare, un solo porto, Trieste, rientra nella top ten delle infrastrutture portuali europee.

L’analisi di Divulga sugli indicatori relativi alle quattro principali infrastrutture (ferroviarie, aeree, portuali e stradali) consegna un quadro che mette in luce un livello di efficienza bassissimo.

Per quanto riguarda i porti l’Italia si colloca al diciottesimo posto dopo Malta e la Grecia con un evidente stacco non solo rispetto ai Paesi Bassi, che vantano un livello di efficienza di 6,3, ma anche dei nostri principali competitor mediterranei come la Spagna (5,24) e il Portogallo (4,97).

Proprio sul fronte dei porti- spiega Divulga – l’innovazione delle infrastrutture è andata avanti molto velocemente e oggi la partita si gioca sulla nuova generazione di navi che possono trasportare fino a 18mila container che se caricati sui camion formerebbero un serpentone di 440 chilometri (la distanza stradale che va da Rotterdam a Parigi).

Ma in Italia ai porti è stato destinato, nel periodo 2013/2017, uno striminzito 2% degli investimenti complessivi dedicati alla logistica a fronte del 14% dei Paesi più avanzati. Un vero e proprio handicap per il Mezzogiorno che potrebbe invece sfruttare al meglio le autostrade del mare.

Ma nei nostri porti le cosiddette “navi madre” non entrano. Un ritardo che rischia di diventare una beffa considerando che, secondo le stime della Commissione europea, entro il 2030 ci sarà un aumento del 50% della merce trasportata attraverso le strutture portuali con la creazione fino a 165mila nuovi posti di lavoro.

Nel Sud, dalla Calabria alla Sicilia, ci sono le condizioni per rafforzare il sistema e favorire un nuovo protagonismo commerciale nazionale nel bacino Mediterraneo attraversato attualmente dal 25% del traffico mercantile totale. Tra l’altro i porti italiani non soffrono dei fenomeni delle alte maree che nel Nord Europa raggiungono anche gli otto metri.

Ma se sul mare la partita è tutta da giocare (per ora gli spazi sono aperti solo per il traffico crocieristico), il bilancio è ancora più negativo per il trasporto ferroviario, aereo e su gomma.

Nella classifica dei servizi ferroviari l’Italia , quanto a efficienza, scende alla ventesima posizione molto lontana dai primi cinque Paesi dove troviamo ancora una volta la Spagna. Dopo di noi i Paesi dell’Est, oltre a Grecia, Malta, Croazia e Cipro.

La Germania ha il doppio delle linee presenti in Italia con più di 38mila chilometri a fronte dei quasi 17mila italiani. Con una forte disparità tra le due aree del Paese: l’alta velocità per i passeggeri si è fermata molto prima di Eboli e per le merci è ancora un miraggio.

I prodotti continuano a viaggiare infatti soprattutto su gomma: la rete stradale – evidenzia lo studio di Divulga – è scelta per movimentare l’88% delle merci contro una media europea del 76%.

L’Italia si colloca al secondo posto per intensità di trasporti, ma sulla qualità lascia molto a desiderare. Ancora una volta per livello di efficienza il nostro Paese resta inchiodato alla ventesima posizione. Dopo vengono solo Polonia, Romania, Ungheria, Lettonia, Bulgaria, Slovacchia, Malta e Repubblica Ceca. Una inefficienza che si riflette sui costi: per ogni chilometro si paga circa 1,12 euro a chilometro, contro 1,08 euro della Francia e 1,04 della Germania.

E’ importante dunque che il Piano nazionale di ripresa e resilienza punti dritto sulla logistica anche attraverso un intervento mirato per il settore agroalimentare. Ma occorre accelerare. Divulga evidenzia come dai dati di Bankitalia e dell’Agenzia della Coesione territoriale emerga un tempo di 4,5 anni per attuare le opere infrastrutturali, ma gli anni lievitano proporzionalmente alle dimensioni delle opere.

Non meno di 11 anni per infrastrutture di oltre 5 milioni, ma addirittura 16 anni per opere da 100 milioni. E i tempi con il passare degli anni si sono dilatati con differenze tra Centro, Nord e Mezzogiorno. Nel Sud la durata è maggiore soprattutto per quanto riguarda le attività accessorie.

Puntare sui trasporti e sull’interconnessione delle diverse modalità potrebbe dare slancio alle spedizioni dell’alimentare made in Italy. Le potenzialità in termini di qualità, sicurezza e varietà dell’offerta ci sono tutte. L’ultimo report dell’Efsa (l’Agenzia per la sicurezza europea) che ha analizzato 96.302 campioni venduti nella Ue ha infatti confermato che bevande e cibi stranieri sono sei volte più pericolosi di quelli italiani. Nei prodotti

extracomunitari sono stati riscontrati residui chimici irregolari pari al 5,6% rispetto alla media Ue dell’1,3% che scende allo 0,9% in Italia. Dei 297 allarmi scattati in Italia- secondo l’analisi Coldiretti – solo il 17% ha riguardato prodotti italiani (51), mentre il 49% veniva dalla Ue (146) e il 34% dai paesi extra comunitari (100). In pratica l’83% dei cibi da allarme rosso arrivano dall’estero con residui di sostanze tossiche su frutta, verdura, cereali, latte e vino.

“E’ necessario – ha dichiarato il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, in occasione della Giornata Mondiale Onu della Salubrità Alimentare, promossa ieri da Fao e Oms – che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri, garantendo che dietro gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda l’ambiente, il lavoro e la salute”.

L’Italia può vantare anche la produzione agricola più green d’Europa. Al suo attivo c’è infatti un crollo del 32% delle vendite di pesticidi. Un andamento in controtendenza rispetto a Paesi come la Spagna e la Germania dove il consumo di pesticidi cresce mentre in Francia la riduzione è di poco superiore al 10%.Il cibo italiano si presenta dunque con le credenziali giuste per sfondare sui mercati e coprire così quei 100 miliardi di falsi che circolano nel mondo.

Ma se non riesce ad agganciare le grandi rotte commerciali, attraverso una robusta cura infrastrutturale, l’agroalimentare rischia di presentarsi alla competizione con le ali tarpate e di perdere così ulteriori posizioni bruciando quella credibilità conquistata negli ultimi anni.


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