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Antonio Bassolino

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SINDACO di Napoli (1993-2000), ministro del Lavoro (1998-1999), governatore della Campania (2000-2010). Antonio Bassolino, 73 anni, è stato per oltre 17 anni il leader della Sinistra e del centrosinistra campano, il trascinatore carismatico di un progetto di rinascita di un meridionale che voleva emergere a tutti i costi. Con lui e con la storica stagione dei sindaci, un popolo per anni tradito e “usato” da ogni colore politico aveva iniziato a credere che certi sogni, rinchiusi nei cassetti a prendere polvere da anni, potessero diventare realtà.

A partire da quel luglio del 1994 quando il mondo scelse Napoli. L’idea del G7 fu di Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, che guidava un governo tecnico nei giorni drammatici tra Tangentopoli e le stragi. Ma il percorso fu solo una parentesi di una lunga e storica stagione. Dopo le primavere bassoliniane sembrava essere giunto il momento del definitivo rilancio di Napoli, della Campania e del Mezzogiorno. Fu una stagione importante che nacque con la legge sull’elezione diretta dei sindaci che rappresentò una rottura rispetto al passato.

Cosa non ha funzionato? Sono mancate classi dirigenti all’altezza? Si è avvertita la carenza di una leadership?

«L’elezione diretta dei sindaci, avvenuta agli inizi degli anni Novanta, è stata la più importante riforma elettorale e istituzionale degli ultimi decenni. Fu una giusta risposta alla crisi della politica, introdusse il principio della responsabilità, fece delle città un punto di riferimento politico per tutto il Paese. La svolta fu tale che si parlò, impropriamente, di un “partito dei sindaci” e coinvolse il Nord, il Centro e il Sud: una esperienza, evento difficile in Italia, davvero nazionale. In quegli anni cercammo di cambiare con proposte e iniziative anche lo Stato centrale ma non ci riuscimmo, e naturalmente non dipendeva solo da noi ma dalle forze politiche e parlamentari. Fu dunque, l’elezione diretta dei sindaci, una riforma incompiuta, una riforma a metà invece che di sistema e questo è rimasto un nodo tuttora irrisolto. Ma oggi, poi, anche nei Comuni la situazione è diversa e si sente una crisi della partecipazione democratica: crisi che è ancora più forte negli altri livelli istituzionali, regionali e nazionali, più distanti dai cittadini. Siamo dunque in presenza di una questione democratica, con cui è doveroso fare i conti».

In questi anni si è parlato tanto di immigrazione e accoglienza ma ben poco di emigrazione. Oggi i giovani del Sud non scappano nemmeno più al Nord ma all’estero. Cosa dovrebbe fare la politica per trattenere i suoi giovani e valorizzare le proprie risorse umane? Come si è giunti a questo fallimento?

«È vero. In questi anni si è parlato molto di immigrazione, e spesso il tema è stato dominante: per ragioni obiettive ed anche strumentali. Intendiamoci: è un problema enorme che ci accompagnerà, da noi e in altri paesi europei, per i prossimi tempi e che richiede la capacità di tenere assieme solidarietà e sicurezza. Faccio un esempio. Se, in assenza di una giusta programmazione e dislocazione sul territorio, in quartiere come il Vasto (attorno alla stazione centrale) si concentra una presenza di immigrati in buona parte irregolari oltre ogni limite è evidente che nascono tensioni perfino in una città come Napoli da sempre abituata all’arrivo di persone di ogni colore e religione. È poi evidente il paradosso: impressionante e clamoroso è invece stato e continua ad essere il silenzio dell’emigrazione dal Sud, soprattutto verso l’estero. Sono soprattutto giovani, e in molti casi si tratta di risorse umani fondamentali, del cervello del nostro Mezzogiorno. È perfino cambiata la composizione demografica del Sud che oggi si presenta più anziano e meno giovane. È questa la nostra principale questione, e si lega in modo indissolubile al destino ed allo sviluppo dell’intera nostra nazione».

Con i 209 miliardi del Recovery Fund, l’Italia adesso non ha più alibi, deve cambiare la macchina dello Stato per fare investimenti nel Mezzogiorno. Occorre un taglio netto con il passato e non illudersi che sia arrivata la Befana europea. Conte verrà ricordato non per i soldi che ha strappato all’Europa ma per ciò che riuscirà a fare con quei soldi, soprattutto per il Sud. Come il governo dovrebbe gestire e programmare questa rinascita?

«Con il Recovery Fund siamo ora di fronte ad una grande sfida. A me non piace il termine spesso usato di occasione (sono tante le occasioni perdute) ma certo abbiamo una possibilità inedita. Nel Sud si è sentita, più che in altre parti, il peso della grande crisi internazionale 2008-2018 che è stata come una sorta di terza guerra mondiale ed il tutto è stato in questi mesi aggravato dalla botta economico-sociale, più grave di quella sanitaria, del Coronavirus. L’accordo europeo riapre una prospettiva che sembrava chiusa. Attenzione, ora: non possiamo e non dobbiamo sbagliare. È sul Sud che si gioca il futuro più generale. Fisco agevolato, sanità e scuola rinnovate e di qualità, grandi progetti infrastrutturali e interregionali nel campo dei trasporti (ferrovie, porti), dell’assetto idrogeologico, della conoscenza e della produzione immateriale. Programmare e concentrare, invece che disperdere le risorse, come è successo per errori anche della sinistra: hic Rhodus, hic salta».

Il premier Conte farebbe bene a cambiare squadra? Con questi uomini al governo il Paese riuscirà ad avere una svolta in questo momento storico?

«In questo momento eviterei una discussione sulla composizione del governo. Discussione che ricorderebbe molto quelle balneari di anni fa sulla composizione del governo».

Nel libro “La grande balla. Non è vero che il Sud vive sulle spalle del Nord, è l’esatto contrario” il direttore Napoletano, con dati e statistiche ufficiali alla mano, racconta lo “scippo” di sessantuno miliardi che ogni anno il Nord effettua ai danni del Sud. E capovolge lo stereotipo del meridione d’Italia assistito che, al contrario, è stato abbandonato e saccheggiato. Ad esempio, la capitale del posto fisso è diventata il Nord Est che ha cinque dipendenti pubblici ogni cento abitanti, ultimo censimento Istat, contro i 4,5 dell’intero Sud. Che ruolo deve giocare il Mezzogiorno per affermarsi come forza di un Paese ed essere protagonista e padrona del proprio futuro?

«Abbiamo dunque bisogno di una impegnativa discussione pubblica sul che fare e poi di una seria capacità decisionale. Guai se dovesse presentarsi anche ora, negli orientamenti delle forze politiche e sociali, una sottovalutazione del carattere strategico del mezzogiorno. Al contrario è indispensabile che l’intero governo e i gruppi dirigenti imprenditoriali e sindacali si facciano carico, assieme al ministro Provenzano, della necessità di scrivere finalmente una pagina nuova. Infine è anche essenziale che il Sud sia più unito, al di là delle legittime differenze politiche. Regioni, città, rappresentanze parlamentari devono imparare a collaborare di più, ad ascoltarsi e lavorare assieme: come il Nord ha tante volte saputo fare meglio di noi meridionali».


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