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È un’Italia bloccata. Che non riesce neanche a versare la cassa integrazione a chi non ha potuto lavorare. Un milione di italiani non vede un euro da mesi. Non ha mai ricevuto l’assegno. Gli è stato promesso ma il rimpallo tra regioni che viaggiavano a rilento nel rilasciare le autorizzazioni e lavoratori Inps che aspettavano a casa i computer per lavorare in smart-working li ha messi in ginocchio. All’inizio del lockdown, al 95% dei 27.930 dipendenti Inps è stato chiesto di lavorare da casa. E fin qui, tutto “normale”. Intere sezioni che si dedicavano ad altro sono state riconvertite per lavorare sui prodotti Covid.

SENZA COMPUTER IN SMART-WORKING

La maggior parte degli impiegati non aveva in dotazione il computer. O meglio, quello che aveva serviva anche ai figli per la didattica a distanza. In attesa che arrivassero i nuovi portatili, i tecnici informatici dell’Inps hanno scaricato i programmi per permettere che i colleghi lavorassero a domicilio. C’è chi si è connesso notte tempo per non accavallarsi con le lezioni online del figlio o con il lavoro del marito. Lo ha fatto sapendo che in ballo c’era la sussistenza di altri lavoratori.

«È stata una grande prova, senso della responsabilità e senso civico – rivendica giustamente Antonella Trevisan, coordinatrice nazionale della Fp Cgil Funzione pubblica – Per fronteggiare l’emergenza il personale Inps si è adoperato al massimo, senza orari. Nessuno avrebbe mai immaginato una situazione del genere, milioni di domande. In due mesi, il lavoro di più un anno».

Ora la situazione pian piano si va normalizzando. Il personale sta tornando gradualmente negli uffici. Ma in quei giorni la situazione era drammatica. Mentre negli ospedali medici e infermieri affrontavano il contagio a volte, molto spesso purtroppo, senza i dispositivi di protezione necessari, gli impiegati della nostra previdenza nazionale venivano messi in smart-working ma senza il pc. E gli italiani aspettano quei soldi per andare avanti.

Sapere ora che a Palazzo Chigi c’è chi chiede la testa di Pasquale Tridico, il numero uno di via dell’Amba Aradam, suona consolatorio ma non basta. Il meccanismo che doveva trasformare l’Inps in un helicopter money, erogatore a getto continuo di risorse, si è inceppato.

LA GUERRA DEI NUMERI

Un flop che si somma ad altri flop. Le 8.500 stazioni appaltanti elencante dall’Autorità nazionale per la lotta alla corruzione (Anac) paralizzate da ben 32 passaggi burocratici. Le 164 gare sospese causa virus. I tempi di realizzazione delle opere pubbliche che sono mediamente il doppio di altri Paesi europei. Nella normalità le cose funzionavano poco e male. Lo abbiamo sempre saputo. Risulta intollerabile, però, che in piena emergenza non si riescano neanche a spendere i soldi. Le tabelle dell’Inps, aggiornate al 17 giugno scorso, vorrebbero dimostrare il contrario. Che solo 25 mila hanno ricevuto la Cig. La verità, purtroppo, è quella scritta nera su bianco da Guglielmo Loy, presidente del Consiglio indirizzo e vigilanza Inps, che vuol vederci chiaro e ha chiesto l’accesso agli atti.

«La differenza tra domande presentate e autorizzate è di 81 mila» ha spiegato nei giorni scorsi Loy, in più occasioni. Questo il suo ragionamento che non fa una piega: «Se si considera che in media ogni azienda ha 10 dipendenti, ecco che arriviamo a 800 mila domande respinte che si aggiungono alle 134 mila indicate ufficialmente». Un milione e 300 mila aziende hanno fatto richiesta di Cassa integrazione. Vuol dire circa 9-10 milioni di persone. Dove sono finite? Scomparse dai radar Inps, non pervenute?

GLI ANTICIPI

Per il salvataggio in extremis sono stati pensati tre strumenti. La cassa integrazione ordinaria, i fondi di solidarietà e la cassa in deroga, un meccanismo pensato per dare protezione sociale anche ai lavoratori delle aziende che non pagavano un contributo ad hoc. Le grandi aziende hanno anticipato i soldi ai lavoratori. Avevano la liquidità per farlo. Le più piccole no, dovevano aspettare il decreto della Regione, cioè l’autorizzazione. Stiamo parlando di circa quattro milioni e mezzo di persone, e proprio tra queste, forse, c’è il milione che aspetta l’assegno Inps. Sotto accusa è finito Tridico, intorno al quale fanno quadrato i 5Stelle La responsabilità è però di chi ha deciso di utilizzare uno strumento normale per una catastrofe mondiale.

LA MOLTIPLICAZIONE DELLA BUROCRAZIA

Vediamolo l’iter: la richiesta all’Inps, che a sua volta la gira alla Regioni. Passano altri giorni per ottenere il decreto e restituire la domanda all’Istituto di previdenza. Il quale dovrà scrivere quindi al richiedente per comunicare che l’approvazione c’è, ma prima si dovrà compilare un modulo (Sr41) per ogni dipendente e rinviarlo con l’Iban dell’intestatario. In caso di errore, un solo numero sbagliato, si ricomincia. Una triangolazione omicida che rischia di trasformare quella che doveva essere una procedura amministrativa per erogare soldi pubblici in una emergenza sociale.

IL CASO LOMBARDIA: IL 15 APRILE SOLO 51 DOMANDE

Il combinato disposto Inps-Regioni ha moltiplicato gli effetti deleteri della burocrazia. Si pensi, ad esempio, che il primo decreto della Regione Lombardia, ancora oggi epicentro del coronavirus, locomotiva industriale del Paese, è arrivato all’Inps solo il 15 aprile. Conteneva 51 domande. Dal 21 al 29 aprile sono giunti ulteriori 53 decreti per 15.329 domande; tra il 30 aprile e il 3 maggio sono stati presentati all’istituto 74 decreti con 33.565 domande. Il 4 maggio, primo giorno della fase 2, le domande di cassa integrazione in deroga contenute in 127 decreti ammontavano a 48.894. Davvero poche se si pensa alla popolazione dell’area più produttiva d’Italia. Un buon motivo perché la Regione guidata dal presidente Attilio Fontana rifletta sugli effetti moltiplicativi che si possono avere quando la burocrazia statale si somma a quella regionale.


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