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Il ministro del Lavoro Andrea Orlando

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CHE cosa succederà dal 1° luglio nelle aziende in cui terminerà il blocco dei licenziamenti e i datori di lavoro potranno gestire gli organici ovvero la risorsa più importante della loro attività imprenditoriale? Nella manifestazione di sabato scorso si è sentita invocare il pericolo di nuove fratture sociali. A onor del vero lo slogan delle manifestazioni doveva essere un altro. ”Fermate il mondo che vogliamo scendere”.

Altro che giornata di lotta; Cgil, Cisl e Uil hanno fornito la dimostrazione dell’impotenza e della disperazione che contraddistinguono gli attuali gruppi dirigenti confederali. Capiscono benissimo che prima o poi questa situazione dovrà finire, ma loro non sono preparati ad affrontare il ”dopo” e quindi pretendono di tenere l’apparato produttivo bloccato il più a lungo possibile. Sembrano i passeggeri di una mongolfiera bucata. Credono di andare più veloci invece stanno precipitando. 

Non può contare su di una prospettiva un Paese che tiene insieme decine di migliaia di posti di lavoro legati alle aziende grazie ad un rapporto giuridico fittizio mentre interi settori denunciano di non essere in grado di trovare manodopera. Con i sindacati che si accaniscono a tenere in vita posti di lavoro che sono ormai anime morte e non si pongono minimamente il problema di avviare delle politiche attive, sorrette dagli ammortizzatori sociali e da esperienze di riconversione professionale.  L’attesa di nuovi ammortizzatori sociali è un pretesto. Gli ammortizzatori ci sono stati e ci sono. Laddove non erano previsti è arrivata senza risparmi la cassa in deroga, con botte da 4-5 miliardi al mese. La cassa da covid per le aziende prive di strumenti di tutela ordinaria arriverà fino alla fine dell’anno. Le riforme sono state fatte, nel jobs act e nei provvedimenti successivi.

Ma i sindacati sono pronti ad attivarli? Ripassiamo insieme come sarebbe possibile affrontare delle sfide difficili ma inevitabili.

La via maestra sarebbe certamente quella indicata da Ignazio Visco nelle Considerazioni finali: “Andranno corrette le importanti debolezze nel disegno e nella copertura della rete di protezione sociale che permangono nonostante le riforme degli ultimi anni; la pandemia le ha rese manifeste, richiedendo l’adozione di interventi straordinari. Siamo inoltre ancora lontani dalla definizione di un moderno sistema di politiche attive, in grado di accompagnare le persone lungo tutta la vita lavorativa: in Italia un disoccupato su dieci riceve assistenza attraverso un centro per l’impiego, contro sette su dieci in Germania. Non è solo una questione di risorse stanziate, da noi comunque modeste; si tratta soprattutto di innalzare e rendere più omogenei sul territorio gli standard delle prestazioni fornite dalle diverse strutture’’.

Certo, un moderno sistema di politiche attive non si improvvisa, ma almeno per la gestione degli esuberi ci sono in Italia esperienze e strumenti che possono essere utilizzati, attraverso un serrato confronto tra le parti sociali e le autorità pubbliche. Proprio per la diversa rilevanza “sociale” dei licenziamenti collettivi, il legislatore ne detta una disciplina specifica rispetto alla fattispecie del recesso individuale (comunque azionabile in giudizio).

L’accento viene posto sul coinvolgimento della parte sindacale e, più in generale, sulla cosiddetta procedimentalizzazione del potere di recesso. In altri termini, si vuole che il datore di lavoro deciso a licenziare collettivamente i propri dipendenti debba seguire un iter estremamente articolato, nell’ambito del quale spicca il coinvolgimento dei soggetti portatori degli interessi opposti in gioco e il filtro preventivo dell’intervento della Cigs. In sostanza si apre un negoziato motivato e riferito ad un numero di lavoratori anonimi fine alla conclusione della procedura, conclusa la quale con un accordo o un mancato accordo, l’azienda può portare a termine l’operazione secondo una gerarchia di criteri previsti dalla legge.

Durante il negoziato subentra l’esame degli strumenti messi a disposizione dal legislatore per la tutela dei lavoratori che perdono il posto. È previsto un istituto specifico, la Naspi, una prestazione che viene erogata per assicurare un reddito, per un periodo determinato, a chi è disoccupato. Poi sono previste norme che accompagnano i lavoratori al pensionamento anticipato. Lo scivolo pensionistico è inerente ad un c.d. contratto di espansione e consente a un’impresa (il decreto Sostegni bis riduce il limite ad meno 100 dipendenti) di mandare in pensione, con il loro consenso, i dipendenti stessi che si trovano a non più di cinque anni dall’età della pensione di vecchiaia o della pensione anticipata, avendo regolarmente maturato il requisito contributivo minimo richiesto. Durante il periodo dello scivolo pensionistico, il datore di lavoro è chiamato a versare al dipendente un’indennità mensile che deve essere commisurata al trattamento pensionistico maturato al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Inoltre, il titolare dell’azienda deve versare anche i contributi previdenziali nell’eventualità che la prima decorrenza utile della pensione sia quella prevista dal pensionamento anticipato.

Lo Stato viene incontro al datore di lavoro soltanto per un massimo di 24 mesi, vale a dire contribuendo al 100% alla copertura della Naspi: una volta scaduti i due anni, il versamento del trattamento economico da destinare al lavoratore è totalmente a carico dell’impresa. È altresì utilizzabile il pacchetto Ape (nelle tipologie di sociale e aziendale). L’APE sociale permette di far valere 63 anni di età e – a seconda dei casi – 36 o 30 anni di versamenti contributivi. L’Ape aziendale ha più o meno le medesime caratteristiche del contratto di espansione. Per i c.d. precoci (che hanno iniziato a lavorare prima dei 19 anni) è definita alle medesime condizioni precedenti, in modo strutturale, una possibile uscita a quota 41 anni di contribuzione. Certo queste misure richiedono delle “condizionalità” ancorché molto ampie. Ma rispondono a criteri di equità e di tutela per coloro che presentano dei disagi e dei problemi effettivi. 

Vi è poi la gamma dei contratti di solidarietà che intervengono però, attraverso riduzioni di orario e di retribuzione, in costanza di rapporto di lavoro, secondo criteri distributivi tra tutti i dipendenti, allo scopo di scongiurare gli esuberi. Se poi i sindacati insistono sulle pensioni si convincano che, oggi, non ha senso infilarsi in un riordino di carattere generale a disposizione di tutti, anche di coloro  che non hanno particolari problemi di lavoro e di salute in una fase come l’attuale. Si veda piuttosto come – a certe condizioni sostenibili – il pensionamento anticipato (in Italia largamente prevalente) possa essere usato alla stregua di un ammortizzatore sociale.

Ma perché ciò sia possibile non serve sparare nel mucchio. Occorrono  interventi mirati, tra cui lo sviluppo dei fondi bilaterali (che già durante la pandemia hanno fatto la loro parte ovviamente dove c’erano ed operavano): strumenti che, nella transizione, possono contribuire ad una svolta a livello delle politiche attive.


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