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“O MI MANTIENI, o mi sviluppi”. Questo è stato il grido di molta parte del popolo meridionale alle elezioni che hanno consacrato l’affermazione  dei Cinque Stelle. Ed il 28 gennaio 2019, con le disposizioni in materia di reddito di cittadinanza, il governo Conte I, formato da Movimento 5 Stelle e dalla Lega, rispose “ti mantengo”.            

A quasi tre anni dalla approvazione della normativa il dibattito su tale provvedimento è non solo aperto ma certamente diventato molto vivace: da un lato la schiera di coloro che pensano che sia un provvedimento per i cosiddetti poltronisti. Matteo Renzi in testa, ma dietro molta parte del centrodestra, certamente la Meloni, ma anche quel Salvini il cui governo aveva approvato la legge.                  

Ma a fianco di tali raggruppamenti politici molta parte di Confindustria, che ha visto venir meno quella offerta  di lavoro, che aveva consentito di coprire una domanda di professionalità non particolarmente formate, ma le quali oggi ritengono di non doversi spostare dal profondo Sud, visto che ormai una possibilità di sopravvivenza la hanno a casa loro. E che non sono sostituibili per molti motivi da extracomunitari. Come per esempio barman o camerieri o addetti alberghieri per esempio.            

L’analisi dei dati pubblicati poi dall’Inps sul Rdc mette d’accordo  le  tre confederazioni sindacali: il reddito di cittadinanza serve forse a chi si trova in situazioni di povertà, ma non è uno strumento utile per creare lavoro. Emerge quindi che con il reddito di cittadinanza non si dà una risposta a chi cerca occupazione ma soltanto a chi è in condizioni di povertà assoluta. Ma poi chi meglio intercetta i bisogni delle persone è il Comune, mentre in questo modo il cittadino fa domanda allo Stato. Una logica “verticale”, che alla lunga non è stata efficace.              

In un territorio come quello settentrionale servono percorsi di formazione, di riqualificazione, nuovi rapporti scuola-imprese. Non un reddito di cittadinanza. Quindi a parte i Cinque Stelle, Leu e parte del Pd, quella più a sinistra e ideologizzata, il reddito di cittadinanza è stato abbandonato, come idea, da buona parte delle forze politiche, oltre che da Confindustria e dai sindacati e quindi si arriverà presto ad una sua modifica, visto che la sua abolizione potrebbe far traballare la maggioranza del governo.        

Ma vediamo quali sono gli errori di fondo che hanno portato a questa situazione. Il primo è stato quello di voler coprire con un solo provvedimento due problematiche diverse: quella della ricerca di un posto di lavoro e quella della assistenza a coloro che non hanno nulla. Ed è evidente che la prima parte del provvedimento non poteva funzionare perché i navigator non possono inventarsi il lavoro che non c’è. Mentre la seconda probabilmente è stata dimensionata male per cui gli importi magari sono troppo elevati, e l’interlocutore con il quale devono confrontarsi i fruitori del reddito dovrebbe poter essere un altro e non certamente lo Stato ma forse i Comuni, che peraltro sono in molti contro il provvedimento. L’altro errore fondamentale è quello di aver voluto uno strumento unico per due parti del Paese che hanno problemi totalmente differenti: Nord e Sud sono due Italie. In una lavora una persona su due, nell’altra lavora una persona su quattro. Quella persona su quattro che non lavora ovviamente non può che rivolgersi al reddito di cittadinanza, anche perché è facile che considerata la povertà dell’area i soggetti abbiano i requisiti che lo strumento richiede.                

Ed infatti  è stato fondamentalmente utilizzato nelle zone meridionali del Paese come Campania (692.368) e Sicilia (559,588), nelle quali il numero di richieste accordate  è stato particolarmente elevato ed ha stupito molti che evidentemente non conoscono bene i dati del mercato del lavoro.    

Perché non c’è nulla da stupirsi del fatto che le dimensioni di tale strumento siano in Campania e in Sicilia nell’ordine del mezzo milione di richieste per ognuna,  considerato che la mancanza di lavoro nelle due regioni è oltre il milione di posti di lavoro per ciascuna. Probabilmente tale strumento utile per il Sud se viene gestito dai Comuni, e ridimensionato nel suo importo per evitare che non vi sia più l’interesse al lavoro,  può ancora essere utilizzato, mentre è assolutamente inadatto e va cambiato per realtà dove il lavoro c’è e dove lo strumento va molto indirizzato nel senso della ricerca di un’occupazione alternativa o di una formazione che porti ad un nuovo inserimento.        

Per quanto riguarda il Sud il tema sul quale bisognerà ritornare e che sembra che molti non vogliono capire è quello di creare quei posti di lavoro che mancano. Se su 21 milioni di abitanti lavorano soltanto in 6.100.000, compresi sommersi, è evidente che un provvedimento di sostegno sarà utilizzato da moltissimi che non troveranno mai un posto di lavoro, perché questi non esistono e bisogna crearli.            

Lo strumento che doveva servire a creare nuovo occupazione, cioè quello delle Zone economiche speciali, va a rilento perché non soddisfa le esigenze della classe dominante locale estrattiva che vuole utilizzare la creazione di posti di lavoro per alimentare il proprio consenso, cosa che non riuscirebbe a fare con l’attrazione di investimenti dall’esterno dell’area.    

I nuovi investitori devono essere pregati per insediarsi altro che sottostare alle forche caudine delle esigenze dei capetti locali. Ed allora le Zes sono più o meno fermi al palo e si continua a dibattere come fare per fare incontrare una domanda  di lavoro inesistente con una offerta  di lavoro particolarmente ampia.        

Il problema, se lo si vuole, va risolto nella sua origine, ma è chiaro che questo è estremamente complesso. Molto più facile dare mancette di sostegno a chi poi in realtà non aspettava che questo, o a chi si accontenta di una sopravvivenza nemmeno dignitosa, ma assistita, ma che forse non ha alternative valide.


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