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I venti di guerra si erano sentiti e i media nazionali avevano già preparato il terreno. Il reddito di cittadinanza andava modificato. Il Premier però aveva adottato un atteggiamento diverso rispetto a quota 100, che aveva bollato come insostenibile, e per la quale aveva dichiarato l’esigenza del ritorno alla normalità della legge Fornero, ovviamente progressivamente.

ùMentre per il reddito di cittadinanza aveva sostenuto che era uno strumento assolutamente legittimo, che ci allineava al resto degli Stati europei, e che era stato estremamente utile, soprattutto nel momento della pandemia, quando moltissimi si erano ritrovati senza un reddito.

Le voci dell’esigenza delle modifiche sono venute da molte forze politiche e da molte aree. Da chi pensava di abolirlo tout court, a chi invece riteneva utile modificarlo negli importi, nei destinatari e nelle condizioni.

Da chi, come i Cinque Stelle, ne avevano fatto uno scalpo, considerato che era stato un provvedimento che aveva portato il consenso di centinaia di migliaia di voti e che vedeva nella sua modifica il pericolo enorme di alienarsi la simpatia di molti elettori, soprattutto al Sud, a chi come il PD lo sosteneva per una esigenza di coalizione e si allineava a tale posizione con qualche mal di pancia interno. Nella società civile le esigenze di modifica provengono soprattutto da parte della branca dei servizi dell’area settentrionale, che si é vista calare l’offerta di lavoro dei meridionali e che soprattutto, in un momento di ripresa, vedono la loro carenza di personale insoddisfatta e le loro richieste di lavoratori andare deserte.

Perché se è vero che molti lavori possono essere coperti da extracomunitari è anche vero che per alcuni è preferibile avere lavoratori bianchi, con una conoscenza della lingua italiana adeguata, con una formazione scolastica di buon livello e magari una preparazione tecnica di scuola media superiore. E tali lavoratori nel settentrione non sono più disponibili tra i locali, considerato che in molte di tali realtà il rapporto tra popolazione complessiva e occupati è di uno a due.

Tutti ricordiamo gli interventi dello chef Visani su parecchie reti televisive che dichiaravano l’impossibilità di continuare l’attività per mancanza di lavoratori. Questa domanda di lavoro era stata coperta negli anni passati attingendo ad una riserva che proveniva dal Sud e che veniva quantificata in 100.000 persone che ogni anno si spostavano.

Tra parentesi per il Mezzogiorno tali spostamenti portavano ad una perdita di capitale umano formato che costava circa 20 miliardi annui, considerato che per formare una persona con la scuola media superiore sono necessari 200.000 euro, dalla nascita a tale livello di istruzione, e che tali costi ovviamente sono a carico delle regioni di provenienza.

Ma l’esigenza di modifiche venivano anche da parte di molti sindaci che vedevano tanti usufruitori, inutilizzabili, mentre le esigenze delle comunità erano particolarmente elevate.

Le modifiche che sono state apportate per quanto attiene agli importi, dei singoli e delle famiglie, alla diminuzione di tali importi quando non si accetta un posto di lavoro, aldilà dell’esigenza di qualcuno che siano più o meno consistenti, non possono che trovarmi d’accordo.

Ma c’è un punto che mi provoca delle perplessità. Ed é quello relativo all’obbligatorietà di accettare un posto di lavoro a tempo indeterminato, indipendentemente dalla distanza chilometrica alla quale viene offerto e, nel caso in cui non avviene l’accettazione del lavoro, l’automatico venir meno del diritto al reddito di cittadinanza.

Perché è evidente che un posto di lavoro a qualche migliaio di chilometri a tempo indeterminato si può anche averlo offerto, ma tale occupazione porta ad avere gente con stipendi, che sono assolutamente accettabili ed interessanti se si hanno nella propria realtà, che diventano assolutamente insufficienti a migliaia di chilometri dalla propria residenza.

Mentre l’aspetto dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro andrebbe abbandonato ed operato con strumenti appositi restringendo assolutamente il ruolo dello strumento all’assistenza, sopratutto al Sud, tranne se non si pensa che debba essere fatto, come le modifiche sembrerebbe vogliano fare, con processi emigratori che continuano a provocare l’impoverimento di un’area. Assumendo che le offerte di lavoro debbano essere accettate da qualunque parte d’Italia esse provengano, con l’unica condizione che siano a tempo indeterminato.

Invece bisognerebbe approfittare del PNRR per assumere il principio che debba essere creato il lavoro laddove c’è capitale umano disponibile e che non sia fisiologico un processo emigratorio che porti al sovraffollamento di un’area ed allo spopolamento di un’altra. Quella che abbiamo dovrebbe essere un’occasione da non perdere.

In una visione organica nella quale lo sviluppo armonico del Paese è l’unico modo perché si cresca in maniera sana, senza quella antropizzazione eccessiva che sta portando alcune aree al limite della loro agibilità.

Anche l’esperienza COVID ci ha insegnato che l’eccessiva concentrazione di aziende, e conseguentemente di persone, in una zona moltiplica i problemi esistenti in qualunque occasione di stress che si possa verificare.

L’episodio che stiamo vivendo della localizzazione della Intel ci dice invece che l’approccio é sempre lo stesso, se si mettono in competizione per la localizzazione e l’attrazione di Investimenti dall’esterno dell’area realtà totalmente diverse come il Veneto la Puglia e la Sicilia.

Da un lato insistendo nella industrializzazione di un’area e non intervenendo per evitare la desertificazione di un’altra, trattando la seconda solo con strumenti di assistenza.


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