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Giuseppe Conte durante il discorso alla Camera

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A CHE cosa si deve guardare per giudicare la prima puntata del confronto sulla crisi in corso? Potremmo ragionare sui discorsi che abbiamo ascoltato, non fosse che i politici quand’erano colti ricordavano una frase attribuita al premier inglese dell’Ottocento Benjamin Disraeli (frase citata durante i lavori della costituente da Ruini e poi da Dossetti): “I discorsi in politica raramente fanno cambiare opinione, mai fanno cambiare voto”.

E’ quel che ci si poteva aspettare anche in questo caso: tutto già deciso, tranne le manovre più o meno sotterranee che possono spostare un po’ di voti da una parte e dall’altra e dare spazio ad un fiorire di interpretazioni.

Conte ha fatto un discorso abile, ma, ci sia consentito notarlo, un discorso tipicamente avvocatesco: sottolineare tutto quello che conviene al suo cliente (che paradossalmente è lui stesso), presentando ogni cosa nei termini più facilmente accettabili dalla … giuria, cioè dai cittadini (quelli che guardano la TV). L’elenco delle non poche cose buone che il governo ha potuto fare durante la pandemia per fronteggiare la crisi racconta di interventi che sono stati sostenuti da tutti i membri della sua coalizione e in molti casi, come ha correttamente ammesso, anche dalle opposizioni. Ma ovviamente la crisi non è nata sulle modalità di affrontare l’emergenza. E’ nata sul problema di come si volevano gestire le risorse che sarebbero arrivate per il dopo (una montagna di miliardi) e del perché non si era voluti arrivare a risolvere il potere di veto di cui i Cinque Stelle ritenevano di poter godere.

Questo è il tarlo che rode l’attuale governo e che continuerà a roderlo, per la semplice ragione che è illusorio pensare di anestetizzarlo con proclami generici sul digitale e sulla rivoluzione verde, cose su cui in astratto e in generale sono tutti d’accordo (forse persino nelle opposizioni). Però sarebbe improprio non rilevare che Conte ha preso consapevolezza del problema e pensa a suo modo di risolverlo.

Come? Nel breve periodo dotandosi di una cosiddetta quarta gamba, cioè un gruppetto di parlamentari raccattati e attirati con il miele di qualche promessa di posti (limitati) e di un poco di visibilità che è essenziale per provare almeno a non sparire dal palcoscenico politico. Li ha nobilitati definendoli europeisti, liberali, popolari, socialisti e quant’altro, giusto per dar loro una patente che, tranne in rarissimi casi, nessun osservatore si sarebbe immaginato di attribuire loro: almeno se le parole hanno un senso e non sono generiche etichette per cui ovviamente chiunque non predica contro la UE sarebbe europeista, non ce l’ha con la proprietà privata e la libertà d’impresa sarebbe liberale, e roba simile. Con i loro voti spera di arrivare almeno fino a scavallare l’elezione del nuovo presidente della repubblica e forse alla quasi fine della legislatura.

Sul medio-lungo periodo la strategia è un’altra e l’ha anche espressa chiaramente. L’impegno a varare una riforma elettorale di tipo proporzionale è la vera ciambella di salvataggio che lancia a tutti. Da un lato essa, specie se poi contenesse una soglia di sbarramento modesta (cosa non difficile visto che ha LeU in maggioranza e potrebbe interessare anche i membri della quarta gamba), consentirebbe un rifiorire di partitini. Favorirebbe anche Forza Italia e i cespuglietti del centrodestra sottraendoli all’abbraccio soffocante di Salvini e Meloni.

Dall’altro lato consentirebbe a Conte, se del caso, di scegliere fra il farsi un suo partito mettendocisi a capo o accettare di fare il leader dei Cinque Stelle (tutti interi o di una loro ala se la cosa provocasse scissioni nel movimento). Magari in vista delle manovre per le elezioni al Quirinale, l’avere a disposizione la carta di una nuova legge elettorale proporzionale potrebbe essere utile anche per gestire un passaggio che diventa difficile in questo clima di tensione (non capendo che per il ruolo di custode della costituzione da esercitare in una fase di vera ricostruzione ci vuole un personaggio consacrato da un consenso molto ampio fuori e dentro il parlamento, non prodotto dai pallottolieri di quelli che gestiscono le Aule parlamentari).

Ma il problema più grande che rimane è che Conte agendo in questo modo può forse salvare sé stesso, ma affonda sicuramente il PD e probabilmente anche i Cinque Stelle. Con una legge elettorale che in questo clima favorisce la frammentazione e con il premier stesso che considera di mettersi in campo in proprio si apre la strada ad un sensibile indebolimento dei due partiti e ad una maggioranza sempre meno governabile, per di più in crescenti difficoltà a trovare un rapporto decente con l’opposizione, passaggio non secondario se la crisi economica e sociale dovesse inasprirsi.

Chi conta di risolvere tutto coi soldi del Next Generation EU non tiene conto di due dati niente affatto marginali: la UE non ci consentirà di buttarli in bonus e mancette per sostenere operazioni di consenso elettorale e ha tutti gli strumenti per mettere becco nel loro utilizzo; i benefici degli investimenti, se si punterà ragionevolmente su quelli, ci saranno, ma non si realizzano in tempi così rapidi da neutralizzare lo stress di una situazione economico-sociale profondamente compromessa. Come esplicitamente o meno stanno riconoscendo in molti, il risultato di ieri alla Camera risolve ben poco.

Vedremo se una maggioranza raccolta in questo modo a Montecitorio spingerà o meno oggi a consolidare almeno una maggioranza relativa a Palazzo Madama. Il fatto è che i problemi vanno affrontati per quello che sono e sarebbe ora di rendersene conto.


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