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Nicola Zingaretti dopo le consultazioni con Draghi

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NON E’ ancora chiarissimo quale sarà il “perimetro” dei partiti che sosterranno il futuro governo Draghi, anche se è probabile che saranno tutti meno FdI.

Fanno un poco i preziosi quelli di LeU che devono tenere buoni i puristi della loro sinistra interna, ma difficilmente rinunceranno ad una probabile riconferma di Speranza.

Un poco più incerta la situazione dei Cinque Stelle, ma sinora la dirigenza non ha mai perso un confronto coi militanti su Rousseau: magari ci sarà una fronda consistente, magari sfocerà in una mini scissione, ma difficile si vada più in là. Tuttavia rimane aperta la questione più generale di cosa ne sarà dei partiti attuali dopo la vicenda del governo di emergenza nazionale.

Esperienze del genere non consentono il sopravvivere delle situazioni pregresse, anche se bisognerà poi vedere come si svolgerà in concreto questo esperimento politico. Speriamo che sia un successo, perché ne va del nostro futuro, ma non dipenderà solo dalla bravura di Draghi. Ci sono fattori come l’evoluzione della pandemia, la risposta alla crisi economica a livello globale, l’andamento dei conflitti internazionali, che non sono controllabili da Roma e che tuttavia impatteranno sul consenso o dissenso che si formerà nel nostro paese che al momento vive, giustamente, nell’attesa di un’uscita vittoriosa dal grande cataclisma.

I partiti sembrano più subire questa situazione che guidarla, sebbene tutti a vario titolo saranno coinvolti nel “cambio di passo” che si determinerà con il nuovo approccio in via di determinazione.

Al momento l’attenzione dei più è concentrata sul PD, che sembra avere qualche difficoltà a riflettere sul cambio di scenario. Infatti quel che traspare è una certa fedeltà alla prospettiva di puntare su Conte come nuovo idolo del mantenimento di una maggioranza alternativa costituita dalla somma dei propri consensi con quelli di M5S e di LeU. Eppure la tenuta dei Cinque Stelle non è affatto garantita e la formazione di estrema sinistra non si sa che futuro potrà avere nel momento in cui si chiudesse l’era della fuga nell’utopia per rimettersi al lavoro di una ricostruzione basata sulla competenza e sulla affidabilità.

Eppure il partito del Nazareno ha una tradizione su entrambi i fronti, per cui non si vede perché la debba mettere in gioco nell’abbraccio con componenti che non ce l’hanno, per di più neppure prendendo la guida della coalizione, ma lasciandola ad una componente che è probabile non esca bene dalla nuova esperienza. Si pensi anche solo all’ennesima riscrittura del Recovery Plan, i cui due primi esiti fra il fallimentare e il modesto sono totalmente imputabili alla scarsa capacità di leadership di Conte. Questo a fronte di una Lega che potrebbe invece sfruttare molto meglio il cambio di quadro.

Coloro che pensano che la conversione di Salvini andrà in frantumi all’arrivo del primo barcone (come si dice con una frase che da sola mostra la modestia di quelle analisi), non tengono conto che una quota maggioritaria dei consensi al suo partito viene da un elettorato che punta innanzitutto alla salvaguardia dello sviluppo italiano. Il leader ha fatto tanta cattiva demagogia sugli immigrati, ma l’industria del Veneto e di altre regioni leghiste usa tranquillamente il loro lavoro e senza quella mano d’opera si troverebbe in difficoltà. L’unione di estremismo verbale e di pragmatismo nella gestione dell’esistente è una vecchia caratteristica della politica (e non solo di quella italiana).

Ora se la Lega si normalizza, la sua capacità di presa sul moderatismo italiano crescerà ancora. Si pensi anche solo alla situazione in cui si trova FI, che da un lato è in ripresa perché ha intuito prima degli altri suoi partner che stava cambiando l’aria, ma dall’altro ha il problema di reggere nel momento in cui la leadership di Berlusconi, per ovvie ragioni anagrafiche, andrà sostituita.

Un diverso rapporto fra FI e Lega può avere sviluppi, e ad esso si aggiungerà la necessità per una parte almeno di FdI di uscire dal vecchio recinto di un MSI rivisitato, se non vuole rimanere un partito di nostalgici non si sa neppure più di che cosa. Infine c’è il problema dell’area di centro. La definizione non piace a nessuno, ma qui è intesa semplicemente in senso geografico: sono quelle componenti che non vogliono finire né nel tritacarne della sinistra “larga” di fatto condizionata dai Cinque Stelle (peraltro in declino), né sotto le bandiere della destra, sia pure riammodernata.

Se sommiamo anche solo i voti che nei sondaggi vengono attribuiti ad Azione, Più Europa, Italia Viva, un po’ di Verdi e qualche altra sigletta, siamo già intorno e forse anche oltre il 10%. La novità è che questi piccoli partiti nel contesto del governo Draghi avranno una certa posizione sin qui non immaginata e, se la giocano bene, ciò potrà portarli anche ad avere incrementi di consensi: non dimentichiamo che c’è sempre un’area di astensionismo da cui qualcosa si può recuperare (non molto, perché in buona parte è ormai un blocco di persone che si sono staccate dalla partecipazione alla politica).

Ci sarà naturalmente il problema di come superare l’impostazione personalistica che hanno tutte queste componenti e sarà lo scoglio più difficile. I partiti farebbero bene a ragionare sul cambiamento probabile di contesto che si sta avviando, attrezzandosi per posizionarsi al meglio in esso, anziché inseguire, come hanno fatto tante volte in passato, la propensione a vedere tutto come un eterno ritorno delle aspettative che si erano costruiti nel loro passato.


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