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Matteo Salvini

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La “conversione” europeista fa più scena. E difatti è su quella che si sono fiondati giornali e tv per sottolineare una giravolta in grado di suscitare diffidenza e scetticismo. Può essere.

Ma grattando la vernice della propaganda (di tutti) c’è anche un’altra dimensione che Matteo Salvini, nell’aderire al tentativo di Mario Draghi di mettere insieme una nuova maggioranza e un nuovo governo accogliendo l’invito di Sergio Mattarella, ha messo in campo. Ed è la prosecuzione della mission di dotarsi di un profilo e di uno spessore non più legato – ma nemmeno ripudiandolo, che’ sarebbe autolesionistico – solo al profondo Nord, alle sue esigenze, alle sue necessità, alla sua rappresentanza.

Cercando in questo modo di continuare nello sforzo di dotarsi di uno spessore “nazionale”, che dunque tenga conto e anzi avvalori anche alcune specifiche problematiche del Mezzogiorno. Di conseguenza la casualità non c’entra nulla se, nel mentre contestava l’annuncio di chiusura degli impianti sciistici e il lockdown prospettato da Walter Riccardi, il leader leghista è andato da Lucia Annunziata per spiegare che uno dei dossier più caldi e delicati, nonché irrisolti, del governo Conte, ossia l’Ilva, può essere affrontato e condotto in porto col via libera al Ponte sullo Stretto.

Che potrà assorbire la produzione di acciaio dell’azienda siderurgica tarantina, continuare a garantire l’occupazione e dotare l’Italia di una infrastruttura potenzialmente finanziata per intero dal Recovery plan. Non è solo una mossa mediatica, di sapore propagandistico.

Già all’uscita dalle consultazioni con Draghi, infatti, Salvini aveva voluto sottolineare l’accento messo nel faccia a faccia col presidente incaricato sui cantieri, sull’importanza del loro sblocco, sulla potenzialità della ripartenza industriale: ossigeno puro per un Paese che ha visto il Pil tagliato di 10 punti.

E a lista dei ministri ufficializzata, considerare un successo frutto della sua insistenza, il fatto che il presidente del Consiglio abbia acconsentito a dare uno spessore specifico e più concreto al ministero del Turismo. Comparto che assicura qualcosa intorno al 12-15 per cento del Pil e che, per forza di cose, non può essere ristretto solo agli impianti del Nord.

Turismo significa per milioni di turisti le spiagge e le attrattive del meridione d’Italia. Significa anche qui favorire la rete infrastrutturale con porti e ferrovie, vuol dire far riprendere a correre un volano decisivo per lo sviluppo e la crescita di tutto il Paese. Ovviamente la cautela e la prudenza rispetto alle “conversioni” è obbligata. Tuttavia non c’è dubbio che nella crisi di governo Lega e FI abbiano giocato con meno pesi e più scatto dei partiti che sostenevano la maggioranza giallorossa.

Compito facilitato dal fatto di essere all’opposizione, di non dover difendere assetti precostituiti. Però aver compreso che l’arroccamento stile Meloni non funzionava è un valore aggiunto, una mossa politica da non trascurare. Ma appunto. Mentre “l’europeismo” salviniano è oggettivamente una novità, la voglia di sfondamento al Sud si inserisce nel solco della conferma di un percorso obbligatorio se il Capitano intende sul serio far diventare il Carroccio forza di governo e lui aspirare a palazzo Chigi. Senza l’Europa è un disegno temerario; senza il Mezzogiorno pura chimera.

Certo non è facile. I tempi del trionfo alle europee sono lontani, l’ombra del Papeete ha oscurato la marcia impetuosa nelle urne. Quando, per intenderci, la Lega passò dall’impalpabile 0,8 delle Europee precedenti al 6,2 delle Politiche 2018, per toccare il Paradiso del 20 per cento o giù di lì nel 2019. Un travaso di consensi provenienti soprattutto dal M5S, prosciugato dall’alleanza gialloverde. Idem per le isole.

Anche in questo caso la Lega crebbe incontenibile: dall’1% scarso delle Europee 2014 al 6,6 delle Politiche 2018 fino al 22 e oltre per cento del 2919. Il cielo si è offuscato con le successive amministrative, anche a causa dei rapporti non proprio idilliaci con gli alleati Fdi e forzisti che nel Sud hanno la cassaforte elettorale e che hanno dimostrato di non gradire una competition così agguerrita.

Però Salvini non molla. Il core business dei voti leghisti sta al Nord, nel tessuto di fabbriche e fabbrichette devastate dalla concorrenza dell’Est e della Cina; nel pianeta della partite Iva che non hanno garanzie né sicurezze; nei quartieri delle metropoli più a contatto con l’immigrazione clandestina che fa paura e produce insofferenze. Però sono fenomeni non esclusivi del Settentrione: al contrario. L’imprenditoria nordista ha bisogno del Sud per avere commesse e campi d’azione.

Il Sud per risollevarsi ha bisogno dei capitali del Recovery e della pari dignità con il Nord: certo industrializzato, ma in crisi. Il riferimento al Ponte sullo stretto è l’occasione per mettere il cappello su un’opera strategica sgomberando il campo dal pressing renziano. La partita dell’Ilva, dove in tanti hanno sbattuto la testa e continuano a farlo, se ben giocata può diventare il prestigioso biglietto da visita di una forza politica capace di farsi carico di una situazione giudicata un buco nero sociale, politico e industriale. Il consenso si forma anche così. Forse soprattutto così.


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