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Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana

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I rapporti tra il governo e le regioni sono costantemente sotto la lente della pubblica opinione nonostante le componenti responsabili nei due fronti facciano ogni sforzo per non dare molto spazio alle polemiche. Ci si rende infatti conto che è molto difficile andare avanti senza una collaborazione perché ciascuna parte detiene il controllo di snodi essenziali: lo stato l’approvvigionamento dei vaccini e le strutture centralizzate della distribuzione; le regioni le infrastrutture territoriali che devono poi gestire le inoculazioni.

Nonostante non manchino sforzi da una parte e dall’altra, il sistema funziona male e sarebbe ora di fare una seria riflessione sulle cause di questa situazione che porta alla presenza di incredibili differenze fra una regione e l’altra (ma a volte anche fra le province di una stessa regione). Non è questione del “colore politico” delle regioni, perché disfunzioni se ne trovano in un campo e nell’altro. Per dire, la Toscana ha una giunta di centrosinistra che ha orgogliosamente vinto una sfida elettorale difficile ed ha risultati più che modesti, ma soprattutto si è piegata a vaccinare categorie forti (che, come ha detto candidamente il presidente Giani, ci tempestavano di richieste) lasciando indietro gli ottantenni e i fragili.

Il caso più eclatante rimane però quello della Lombardia. La regione orgogliosamente e a volte un po’ bullescamente abituata a considerarsi la capitale morale d’Italia contro lo scassato Lazio della Capitale storica, sede del potere politico, ma inefficiente, è stata letteralmente stracciata dalla performance della regione guidata da Nicola Zingaretti. Si può buttarla nella più becera polemica politica accusando di tutto il leghismo, il berlusconismo e quant’altro, ma così non si va molto lontano.

Si dovrebbe cercare di capire come mai una regione che vanta eccellenze ospedaliere che attirano pazienti da tutta Italia, che dovrebbe godere di una rete diffusa di cultura manageriale-organizzativa non fosse altro per la quantità di grandi imprese che vi hanno residenza, si sia ridotta a non riuscire a gestire un sistema di convocazioni efficienti degli ottantenni (e vedremo se andrà avanti così anche scendendo nell’età dei pazienti). Non si può neppure dire che manchino personalità all’altezza: la chiamata di Bertolaso testimonia al tempo stesso il ricorso ad una competenza sperimentata e la scarsità di risultati che ha potuto ottenere.

Per dirla con una immagine che ci pare significativa: un personaggio di quel tipo riesce a realizzare in tempi rapidi e con efficienza una singola opera di significato non banale (l’ospedale alla Fiera), ma fallisce nel mettere a sistema gli interventi necessari su scala complessiva. Non convincono le spiegazioni semplicistiche: è colpa della distruzione della sanità di base a favore delle eccellenze ospedaliere (lo si è fatto anche altrove); dipende dalla scarsità dei vaccini (anche qui: stesso meccanismo che nelle regioni virtuose).

Non si può dimenticare che la Lombardia aveva già registrato un clamoroso fallimento ai tempi della campagna per la vaccinazione antiinfluenzale, segno che è nel “sistema” e non solo nei “vertici” che vanno ricercate le distorsioni che ora stanno pagando a caro prezzo. L’assessore Gallera non aveva certo dato l’impressione di essere l’uomo giusto al posto giusto, ma l’assessore Moratti che è arrivata con tutt’altro pedigree non è che abbia riscosso successi.

Una seria indagine sul mancato funzionamento del sistema regionale lombardo sarebbe nell’interesse di tutto il paese, perché è un caso di studio emblematico da più di un punto di vista: per le dimensioni di popolazione, per le risorse economiche di cui dispone, per la sua stessa storia. E’ presumibile infatti che il flop sulla campagna vaccinale dipenda dall’usura, per non dire di peggio, di un sistema burocratico-amministrativo dove si sospetta che l’opera del clientelismo partitico abbia provocato una situazione che non poteva reggere alla prova di una emergenza.

Non si tratta di istituire tribunali del popolo improvvisati, di scatenare la caccia a qualche capro espiatorio, perché sono cose che non servono a niente. Si tratta di capire come un sistema che un tempo era stato modello di efficienza si sia degradato a questo punto. Giungere a risultati in questa indagine servirebbe a fermare in tempo fenomeni di consunzione dei sistemi pubblici che sicuramente sono all’opera anche in altre regioni e che dunque è nell’interesse generale poter bloccare.

Che ci siano state gestioni “allegre” di varie partite sanitarie lo hanno messo in luce inchieste e ormai anche sentenze passate in giudicato: andiamo da casi eclatanti come quelli che sono costati tanto all’ex presidente Formigoni a quelli un po’ più da bassa cucina clientelar-amministrativa che hanno coinvolto nella prima fase un’azienda i cui vertici avevano parentele col presidente Fontana. Sono tutte vicende che segnalano un degrado, più o meno importante, della macchina amministrativa, con le ricadute che si sono viste. E tuttavia andrebbe aggiunto che si dovrà capire perché in regioni che certo non sono state esenti da questi tipi di degrado (ci riferiamo per esempio al Lazio) invece il sistema abbia retto alla prova dell’emergenza pandemica.

Occuparsi di questo fenomeno non deve servire alle lotte della politica-politicante, che tanto ne traggono vantaggio marginalmente, ma al lavoro di ricostruzione del tessuto del potere pubblico che è quanto servirà al Paese per affrontare la fase della sua nuova ricostruzione.


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