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Il premier Mario Draghi

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I sondaggi, si sa, vanno presi con le molle. Sono segmenti, segnalano il gradimento in quello specifico momento, possono mutare con sorprendente volatilità. Detto questo, quel 60 e passa per cento di italiani rilevato da Alessandra Ghisleri secondo il quale Mario Draghi otterrà dei risultati importanti «malgrado i partiti», merita una riflessione specifica. Intanto, appunto, il momento: tre mesi dopo il giuramento e dopo una costante flessione negli indici di rilevazione, il presidente del Consiglio ora recupera. Il momento, come segnalato dalla sondaggista, riguarda il piano di vaccinazioni e la presentazione del Pnrr. Significa che nel profondo della Paese si fa strada la convinzione che SuperMario fa sul serio, che è capace di affrontare con successo, seppur in mezzo alle mille difficoltà, la peggiore pandemia del dopoguerra. E che è altresì capace di mettere in campo la giusta e necessaria lungimiranza per non solo sorreggere bensì trasformare l’Italia, rendendola uno Stato più attrezzato verso la modernità e capace di riprendere (finalmente) il cammino della crescita.

Non è poco dunque, e non è casuale. L’ex presidente della Bce non è più l’alieno piombato tra noi per scelta altrui, non più il demiurgo che dai rarefatti circoli economico-finanziari europei prende il potere per grazia ricevuta e imposizione dall’alto. Piano piano diventa the man of solutions, l’uomo del soluzioni. E poi c’è quel “malgrado i partiti”. Per certi versi roba che fa scorrere un brivido nella schiena. L’articolazione Parlamento-forze politiche-premier è il fondamento della democrazia liberale; l’uomo solo al comando, la sua negazione. Come la mettiamo?

In realtà anche qui soccorre un altro sondaggio (!), stavolta di Demopolis, secondo il quale i quattro maggiori partiti sono racchiusi entro un range di 5 punti: dalla Lega al 21,5 fino al M5S al 16,5. In mezzo il Pd al 20 e FdI al 18,4. A spanne, significa che via via le forze politiche perdono smalto e specificità, si ammucchiano in un amalgama che offusca le differenze, scemano di identità: già da tempo sono in fondo alla classifiche di autorevolezza e fiducia. E soprattutto vengono considerati una specie di ostacolo all’opera del capo del governo.

È una condizione inquietante. Produce un circolo vizioso che può diventare zavorra per il sistema. È evidente infatti che tra Draghi e i partiti della larga maggioranza che lo sostiene (e la perdita di identità è anche frutto di questa scelta necessitata: come nei giochi di enigmistica trova la differenza se tutti tranne Fdi appoggiano il governo…) non può che essere di leale collaborazione. SuperMario ha bisogno del loro assenso, dei loro voti in Parlamento per far passare la sua linea e i suoi provvedimenti; partiti e movimenti hanno bisogno di Draghi perché altrimenti l’opera di riscatto del Paese va a farsi friggere, con tutte le (devastanti) conseguenze del caso.

Draghi non può né deve immaginare di poter bypassare i partiti perché la sua non è il tipo di leadership demagogico-populista che si rivolge direttamente “al popolo” azzerando gli istituti di rappresentanza. Da parte loro, i partiti non possono (o non dovrebbero) immaginare di fare sgambetti alla sua azione se non in preda ad una acuta sindrome di masochismo. Anche e soprattutto adesso che il capo del governo ramifica e sedimenta il suo consenso giù per le terminazioni nervose del corpaccione del Paese.

Fin da subito è parso chiaro che quello tra SuperMario e i partiti è un legame tanto obbligato quanto complicato. E tuttavia senza alternative. Chi che l’ha capito prima e meglio di tutti – come anche una certa narrazione dell’ intellighenzia di sinistra comincia a riconoscere – è stato ed è Salvini. E anche per questo, l’idea di spingerlo fuori dalla maggioranza è temeraria. Salvini si muove a modo suo, naturalmente, con modalità politiche al tempo stesso eccentriche e, diciamo così, primitive. Tuttavia non scevre di una certa efficacia.

Il capo leghista punta a capitalizzare i possibili risultati del Recovery e i finanziamenti che arriveranno dall’Europa. Ritiene che a quel punto i sondaggi e il consenso faranno come l’intendenza: seguiranno. Forse sì, forse no. Però stando al governo e nella maggioranza il Capitano ha tutto da guadagnare e continua a ripeterlo. In più il suo ormai esplicito (nonché interessato) endorsement a Draghi nella corsa al Quirinale mette sul tappeto una carta che può diventare un asso. Sul fronte opposto, dinnanzi al crescente potenziamento della figura del premier, le iniziative di Enrico Letta faticano a radicarsi. Il triangolo Pd-M5S-LeU è sempre più difficile da maneggiare, in particolare perché i Cinquestelle sono in grave difficoltà. Il fatto che Di Maio abbia abbracciato la linea di rendere meno stringente il coprifuoco e dar manforte agli “aperturisti”, oltre che dar conto di un certo fiuto politico del titolare degli Esteri, conferma che quella trincea non può essere più difesa come prima.

Il “rischio ragionato” che palazzo Chigi si è assunto con una decisione fortemente politica trova crescenti adesioni. Nelle prossime settimane nel mirino finiranno le riforme che accompagnano e sorreggono il Pnrr. Lì risiede il grosso della partita politico-economica in atto. È in questo passaggio che il rapporto Draghi-partiti non può produrre brutte sorprese. I primi segnali raccontano di un conflitto politico che si va accrescendo. È in momenti come questo che il senso di responsabilità possa prevalere.


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