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Il ministro per il Sud, Maria Stella Gelmini

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RIECCOLI. Sempre gli stessi, santi fondatori di una missione che non s’arresta neanche dinanzi all’evidenza. Ma siamo fatti così: se calano i contagi, se il Covid si eclissa l’ossessione ritorna. L’autonomia differenziata è come il virus: va a ondate. Una religione, un tarlo che rispunta in genere in prossimità di una scadenza elettorale. Ad ottobre si andrà alle urne in più di mille comuni. In città come Roma, Torino, Milano, Napoli e Bologna.

E allora eccola, il tempo di annunciarne la resurrezione e si riparte. A dare il via la ministra agli Affari regionali, Mariastella Gelmini. La sceneggiatura è già apparecchiata. Con i tubi innocenti che reggevano le impalcature dei comizi referendari ormai arrugginiti. E per mancanza d’esercizio s’è ammuffita anche la legge-quadro che avrebbe dovuto sostenere il negoziato tra le regioni autonomiste, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.

L’EFFETTO PANDEMIA

La Pandemia nel frattempo ha messo a nudo tutti i limiti di un regionalismo arruffone, il protagonismo e l’io smisurato di certi governatori. A tre anni e mezzo dalla consultazione-farsa con la quale il Veneto arrivò a chiedere l’autonomia differenziata su ben 23 materie di competenza statale la situazione è di stallo assoluto. Per riaprire quel faldone, dopo i disastri degli ultimi 18 mesi, ci vuole insomma un certo coraggio. Ma è quello che farà la Gelmini entro metà di luglio, ha promesso. Dunque tra meno di due settimane.

Farà il punto della situazione in Commissione bilaterale Affari regionali «perché credo – ha detto la ministra -che le istanze che provengono da alcune regioni debbano trovare comunque una risposta». Prima di lei a tornare alla carica era stato il presidente del Veneto, Luca Zaia, uno che ormai quando gli viene fatta la domanda – riparte l’autonomia? – guarda in alto e non sa più cosa rispondere.

LA GELMINI COME SISIFO

Il tormentone non funziona più. Non ci crede più nessuno, Lega compresa. Sia chiaro: la Commissione bilaterale Affari regionali ascolterà con attenzione la Gelmini. È bene ricordare però che prima di lei il tema è stato abbondantemente trattato e declinato in tutti i suoi risvolti. Si sono avvicendati esperti dal Mef, tecnici della Ragioneria dello Stato, presidenti di regioni, sindaci.

Sulla questione irrisolta dei Lep e la perequazione è stato audito ll presidente della Commissione tecnica per i fabbisogni standard Giampaolo Arachi. E tutti sono arrivati alla medesima conclusione: l’autonomia differenziata e il federalismo fiscale non sono la soluzione allo psicodramma nazionale, la mancata attuazione della riforma del Titolo V.

IL DOSSIER DI CARAVITA

La Gelmini, come Sisifo, riparte. Vuole ripercorrere la stessa strada intrapresa senza successo dal suo predecessore Francesco Boccia (Pd) e prima ancora da Erika Stefani, la passionaria dell’autonomia leghista. Ha annunciato di aver affidato al professor Beniamino Caravita la presidenza della commissione incaricata di fornire alla Bicamerale un dossier.

Di che si tratta? Non è chiaro. Si sa solo che ripartirà dalla legge-quadro, il perimetro entro il quale definire le autonomie per ridiscutere la materia rivendicate dalle regioni. Una delle quale, anzi la più importante, è la sanità. Una richiesta che alla luce di quanto è avvenuto in alcune regioni è persino inquietante. In passato la Stefani arrivò a proporre la composizione di una commissioni paritetica mista: 18 tecnici nominati dal ministero e da altrettanti scelti dalle regioni. Un plotone e non se ne fece nulla.

Questa volta è tutto nella mani del professor Beniamino Caravita di Toritto, uno dei 5 saggi chiamati da Gianni Letta per riformare la Costituzione. Un nome noto soprattutto per aver difeso l’ex presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, promotore di una associazione di giuristi contrari all’uso delle intercettazioni. Caravita, docente di Diritto pubblico alla facoltà di Scienze politiche, all’Università La Sapienza, difese Berlusconi depositando uno dei sei pareri pro-veritate richiesti dalla giunta per le Immunità del Senato sul caso-decadenza del Cavaliere.

Questa volta, insomma, i destini dell’autonomia, sono nelle mani di un pezzo da 90, discendente da una nobile famiglia napoletana, da sempre nell’orbita del centrodestra e di Forza Italia.

LA DUE GIORNI DI BOLOGNA

Proprio ieri a Bologna si è chiusa la due giorni dell’assemblea nazionale di Ali, la lega di circa 2.500 autonomie locali tra Comuni, Province, Comuni e comunità montane. Sotto le Due Torri è sfilato il profilo sempreverde degli amministratori locali. S’è parlato di Recovery Plan, di Pnrr, di come gli enti locali debbano essere coinvolti, del contenzioso che rischia di travolgere la PA.

Un dibattito in presenza di 4 ministri: Cingolani (Transizione ecologica), Andrea Orlando (Lavoro e politiche sociali), Patrizio Bianchi (Istruzione) e la Gelmini, appunto. Evento di un certo peso, con il sindaco Virgino Merola a fare da padrone di casa. Sul tavolo avrebbero dovuto esserci i problemi reali di chi tutti i giorni deve fare i conti con la realtà, confrontarsi con i cittadini, rapportarsi con tempi della giustizia, taglio delle risorse, marginalizzazione nei processi decisionali. Sindaci che per un nonnulla finiscono sottotiro, paralizzati dal fuoco incrociato della magistratura, di come basti un solo granello di sabbia per bloccare gli ingranaggi delle municipalità.

Chi si aspettava, dunque, che l’Assemblea di Bologna fosse l’occasione per ridiscutere tutto questo, il rapporto sfilacciato tra politica e territorio, il nuovo solco che la Pandemia ha scavato tra cittadini di serie A e cittadini di serie B, è rimasto deluso. Merola si è scagliato contro il centralismo delle regioni. Gli altri contro il centralismo dello Stato. E tutti insieme uniti per gestire i fondi europei del Pnrr.


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