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Un giudice in un'aula di tribunale

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Ai tempi della ‘’sporca’’ Guerra del Vietnam, Joan Baez cantava Che le ferite più profonde sono quelle che ci facciamo con le nostre stesse mani. Ed è vero, soprattutto quando a ferire il nostro prestigio nazionale è la magistratura inquirente che ormai non risponde più a nessuno e che, sempre più spesso viene palesemente sconfessata in sede di giudizio.

Purtroppo da noi il disfattismo indossa la toga. E non esita a sfornare teoremi che non somigliano per nulla a prove. Chiunque può rendersene conto leggendo una qualsiasi ordinanza o richiesta di rinvio a giudizio. È come leggere un romanzo giallo: viene descritta una storia con l’indicazione dei protagonisti a cui si imputano reati di ogni tipo, portando come prova un brando di una intercettazione, come se le parole raccolte dal trojan o trascritte dal carabiniere di servizio nei casi meno sofisticati a livello tecnologico, fossero di per sé probanti al di fuori dal contesto in cui vennero pronunciate.

Poi si passano le carte al cronista della giudiziaria che ha fatto carriera grazie alle veline, il quale, spesso prima che arrivi all’interessato l’avviso di garanzia o il mandato di cattura, pubblica lo scoop de noantri in prima pagina. Ormai queste considerazioni non le fanno solo i commentatori malevoli, le scrivono nelle sentenze i giudici. In poche settimane abbiamo preso atto, grazie ai magistrati che hanno ancora coscienza e rispetto del proprio ruolo imparziale, che le procure più paludate si ingegnano a diffamare il Paese, le sue istituzioni, e a distruggere l’apparato produttivo con veri e propri abusi di potere.

Andiamo a Milano, dove opera la ‘’madre’’ di tutte le procure, onusta di medaglie al valore per l’inchiesta ‘’Mani pulite’’ ( ci sono voluti vent’anni perché si sia cominciato a raccontare, nero su bianco, di ‘’che lacrime grondi e di che sangue’’ quella inchiesta) . Che cosa si può dire di una procura che accusa di corruzione internazionale l’Eni, la più importante holding del Paese, senza avere prove solide, ma solo testimonianze di persone inaffidabili, rivelatesi tali nell’ambito di un’indagine compiuta da un magistrato dello stesso ufficio, di cui non i ‘’maggiori suoi’’ non tengono conto fino ad indurlo a cautelarsi consegnando le carte alla Guida Suprema del giustizialismo?

Quest’ultimo si giustifica della fuga di notizie per la quale è indagata la fedele segretaria con un argomento evidentemente considerato inoppugnabile: se fosse stato lui a compiere la trasmissione, avrebbe fatto meglio. Ma se Milano piange Roma non ride.

Con l’assoluzione dell’ex sindaco Gianni Alemanno va in frantumi l’inchiesta che veniva ancora chiamata ‘’Mafia Capitale’’ anche se si era già accertato che la Mafia non c’entrava e che gli imputati erano una via di mezzo tra i mazzettari e i ladri di polli. Ma che cosa passa nella testa ad un ex procuratore capo che ha diffamato – davanti all’intero pianeta – la capitale dello Stato le cui istituzioni ha giurato di difendere? Infine, scendiamo più a Sud e fermiamoci a Palermo. I pm non si rassegnano ad accettare che i giudici abbiano stabilito con diverse sentenze che la trattativa Stato-Mafia è un frutto della loro immaginazione.

Anche in questo caso come si fa ad accusare le più alte magistrature dello Stato di aver negoziato con Cosa Nostra e venire smentiti? Come si pone rimedio alla diffamazione a cui si è sottoposto il proprio Paese? Certo, non esistono in una democrazia delle zone franche, al di sopra della legge. Ma non è esercizio della giustizia inventarsi i fatti e costruire le prove dando magari più credito ad un mafioso pluriomicida (pentito su misura) che ad un ufficiale dei Servizi che ha dedicato la vita alla lotta alla criminalità organizzata.


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