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Renzi firma il referendum sulla giustizia

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CON una dose, chissà quanto esagerata, di malizia si può osservare che a proposito di una legge già in atto e operante affermare che se ne condividono i principi, forse significa che nell’applicazione concreta ci sono errori da sanare. Non è dato sapere se sia questa l’interpretazione autentica delle parole del presidente del Consiglio sul reddito di cittadinanza: quel che comunque va registrato è l’abbrivio, dispiegatosi con una non trascurabile celerità, a modificare il provvedimento maggiormente identitario, assieme alla giustizia, per il M5S.

Visto com’è andata con la riforma Cartabia, non è strano che l’adesso líder maximo del MoVimento abbia messo le mani avanti per dire che la misura non si discute. Tuttavia, almeno a quanto pare, sicuramente si modifica, e a procedere sono d’accordo perfino esponenti pentastellati di primo piano. Ce n’è abbastanza per immaginare scintille quando dal cielo delle affermazioni apodittiche di scenderà sulla terra della scelte concrete.

Nel frattempo chi piazza mine a tutto spiano è Matteo Renzi. L’ex premier non ha fortuna con i referendum eppure, dopo aver firmato in coabitazione quelli sulla giustizia, ne propone uno in proprio, piuttosto esplosivo, appunto sul reddito di cittadinanza. Perché? I dubbi sul merito (non sul principio, non sia mai) della legge che riguarda il sostegno ai più poveri sono numerosi, magari alcuni anche fondati. Ma non è difficile immaginare che la mossa renziana abbia una caratura squisitamente politica.

Per capire meglio, proviamo a metterla così. Il reddito di cittadinanza sta grandemente a cuore al M5S e il Pd su questo terreno non si distingue, anzi concorda seppur non escludendo eventuali revisioni in alcune parti. È una torta troppo bella perché Renzi, il guastatore per eccellenza, non pensi di spiaccicarla. Attaccare frontalmente il RdC vuol dire stendere una cortina di filo elettrificato sull’intesa tra Letta e Conte. “Sempre con i riformisti, mai con i populisti” ha ribadito l’ex premier in una intervista a Libero. Tradotto: se il Pd si schiaccia sul M5S allora si possono aprire spazi (anche in termini di voti?) nell’area del Nazareno che più mal sopporta il legame con i grillini ora assiepati sotto il tetto di Giuseppi. Se al contrario emergono differenziazioni,

Renzi non chiede di meglio che impugnare un piccone per allargarle. L’ex premier è troppo accorto per non capire che la seconda eventualità è solo un’ipotesi di scuola. Per questo ha deciso di puntare sul referendum, per sabotare e rendere quanto più tortuoso possibile il percorso che porta ad un accordo, magari anche elettorale, tra Pd e MoVimento. Sapendo che in Parlamento i margini di manovra sono ristretti ma non inconsistenti, e che l’appello al corpaccione dell’elettorato sul quale la parola d’ordine di impedire che persone che non lo meritano prendano soldi publici, e altri che preferiscono stare sul divano siano costretti ad abbandonarlo, possono far presa.

Senza contare che ogni zeppa tra i due partiti amplifica il raggio d’azione del leader di Italia Viva nel gioco a incastri, molto più complicato di un Sudoku, che deve portare a scegliere la persona giusta per succedere a Mattarella. È un teorema ferreo. Più i Cinquestelle incalzano Mario Draghi – non per farlo cadere perché non ce ne sono le condizioni – ma per costringerlo a virare sulle parole d’ordine grilline, più il Pd va in sofferenza e più Renzi ai frega le mani. Da questo punto di vista, l’affermazione di Giuseppe Conte di voler rivedere in qualche modo (ma senza poter spiegare meglio, per evidenti ragioni, dove e in che misura) la riforma della giustizia, è tutto lubrificante per i siluri che l’ex sindaco di Firenze ha da tempo pronti nei tubi di lancio.

Giustizia e reddito sono i due bastioni sui quali si è squadernata l’azione politica e mediatica dei Cinquestelle: e su quei due Renzi è deciso a fare fuoco. Inoltre rappresentano anche gli asset sui quali punta per rimettersi in sintonia con quel pezzo di elettorato di ceto medio che una volta, secoli politici fa, ne decretò il mirabolante successo del 41 per cento. Quegli elettori non sono scomparsi. Sono rifluiti su altre sigle, oppure si sono accomodati sulle poltrone dell’astensione in attesa di vedere che succede. Sono proprio questi che Matteo pungola per farli alzare. E portarli ai seggi.


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