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Mario Draghi

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Sempre più rapidamente nonché inesorabilmente, il sistema politico fa i conti col macigno sul tappeto: come blindare Mario Draghi. È infatti acquisizione unanime che il profilo del presidente del Consiglio non è bypassabile e che è lui la boccia da mandare in buca prima che tutte le altre possano sistemarsi. Già, ma blindare come? E qual è la buca migliore per SuperMario?

Il punto da cui partire è quello su queste colonne già evidenziato. E cioè che se il 2022 non si sa come finisce, il 2023 è per forza di cose un anno elettorale visto che in quel momento arriva a conclusione naturale la legislatura. Di conseguenza, qualunque sia la strada a quel punto imboccata per il Quirinale, i dodici mesi del 2022 saranno di posizionamento da parte dei partiti in vista dell’appuntamento con le urne.

Significa che la litigiosità dentro e fuori la strana e larga maggioranza è destinata a crescere visto che ogni forza politica tenderà a far valere il suo punto di vista e le sue ragioni al fine di presentarsi di fronte agli elettori con le carte in regola per capitalizzare il massimo del consenso nelle urne. Tradotto: la coalizione attuale non reggerà agli strappi multipli e peraltro SuperMario non ha alcuna intenzione né interesse a farsi rosolare al fuoco delle contese dentro e fuori il Parlamento. Dunque l’attuale equilibrio è destinato tra pochi mesi, diciamo all’inizio del prossimo anno, ad andare in frantumi.

Per essere sostituito da cosa? Questo è il crocevia da superare. Per Giancarlo Giorgetti non c’è altro percorso possibile che le elezioni nel marzo-aprile prossimo. È la tesi che sul fronte opposto espone, in maniera altrettanto esplicita, Goffredo Bettini, mente pensante del Pd. La novità (ma fino ad un certo punto) è che anche il neo presidente del M5S, Giuseppe Conte, arrivi alle stesse conclusioni.

Conte getta la croce addosso alla Lega e a Salvini: sono loro, sostiene, il vero napalm dell’unità nazionale. Ma è tattica. Il punto è che pur partendo da posizioni opposte anche l’ex premier arriva alle stesse conclusioni: in un quadro destinato comunque a sfilacciarsi, arrivare con Draghi e l’attuale maggioranza fino al 2023 è un miraggio. Conte non fa il passo successivo, non arriva a dire che bisogna votare nel 2022 perché gran parte delle sue truppe parlamentari sono terrorizzate dalla prospettiva elettorale anticipata. Tuttavia se le larghe intese non reggono, immaginare altre maggioranze – per esempio con la Lega che raggiunge Fdi all’opposizione – è altrettanto chimerico. Nonché negativo. Per cui, terzium non datur, le urne diventano lo sbocco obbligato.

Ok. E Draghi? Semplice. Spediamolo al Quirinale al posto di Sergio Mattarella che rifiuta il bis e visto che pezzi significativi dell’universo politico non intendono regalarglielo. È il disegno convergente del ministro per lo Sviluppo e del maître a penser del Nazareno. Ci starebbe anche Salvini che però deve tenere bordone a Silvio Berlusconi. E magari anche Giorgia Meloni se il risultato finale fossero le urne subito. Ma se i franchi tiratori nel segreto dell’urna lo impallinano? E se il Pd si mette di traverso e fa naufragare tutto? Beh, c’è sempre l’opzione di Pierferdinando Casini da mettere sul tavolo. A lui non dispiacerebbe. E l’ex presidente Bce che il mondo ci invidia? Beh, in questo caso varrebbe per lui il teorema caro a Franco Evangelisti solo un po’ modificato: e cioè a chi tocca (nun) s’ingrugna.

Va da sé che in una simile prospettiva SuperMario a palazzo Chigi fino al 2023 è solo cenere. Però, però… Magari da quelle ceneri potrebbe rinascere come la Fenice se il responso elettorale, con l’attuale meccanismo di voto e senza revisioni, fosse tipo Germania: nessuno schieramento chiaro vincitore e perciò nuova linfa alle intese, a quel punto larghe fin quanto diventerà possibile. Vero, è uno scenario che sconta l’incoerenza iniziale, e cioè che il presidente del Consiglio non ce la fa a governare perché la sua maggioranza si squaglia prima del dovuto. Ma gli scenari che scrutano il futuribile hanno la caratteristica degli arabeschi onirici studiati da Sigmund Freud: vi vige il principio di non contraddizione.

Poi però se dai sogni e dagli scenari vaticinatori vogliamo provare a mettere i piedi per terra allora diventa palese che il vero nodo, grosso come una casa anzi come un grattacielo di mille piani, è che fine fa il Pnrr e i soldi che la Ue ha acconsentito ad elargirci in cambio delle riforme.

Ecco, se saluta tutto, il concretissimo pericolo è che non se ne faccia nulla. Ossia che l’Italia mandi a monte la più importante e ricca – in senso pratico – opportunità che arriva dal dopoguerra ad ora. E che il cronoprogramma riformistico messo nero su bianco dal capo del governo per provare a risolvere le principali magagne che affliggono il nostro Paese diventa anch’esso cenere nel camino delle speranze perdute di palazzo Chigi.
Possibile? Nessuno può augurarselo per davvero. Se l’Italia fallisse l’appuntamento, le macerie ricadrebbero su tutto il sistema-Paese in un tornado autolesionistico che ci condannerebbe per chissà quanto all’irrilevanza in ambito continentale se non addirittura al default. Impossibile. Per cui, come nel gioco dell’oca, si ritorna alla casella di partenza. Poiché Mario Draghi è l’unica polizza che abbiamo da spenderci nei riguardi di Bruxelles, il nodo diventa come blindarlo. Se non si può a palazzo Chigi, rimane solo il Colle. Chissà se e quanti se ne faranno una ragione.


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