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NON C’E’ niente di più facile che attribuire alle elezioni negli altri paesi il significato che più fa piacere a chi lo formula da casa nostra. Pochi conoscono le peculiarità presenti in un’altra nazione e si può facilmente attribuire a quel che è successo il “colore” che più aggrada al nostro politico di turno. Ciò non significa che qualche spunto di riflessione non si possa proporre, lasciando perdere le strumentalizzazioni banali.

Vogliamo citare le due più clamorose. Una è quella di Letta che si precipita a dire che la lezione che viene da Berlino è che dalla crisi della pandemia si esce a sinistra, quando tutti sanno che Scholz ha vinto come candidato “moderato” e riformista, dopo essere stato in un recente passato duramente contestato dall’ala sinistra della SPD che non lo ha voluto presidente (ci risparmiamo i paralleli con il PD). L’altra è quella secondo cui i partiti in Germania manterrebbero un forte radicamento tradizionale, come se non si fosse vista una consistente mobilità che in un trentennio ha cambiato il quadro politico e le fedeltà elettorali. Lì come altrove sulle bandiere di parte hanno prevalso le figure dei candidati, le persone sono venute prima del richiamo della foresta alle identità ideologiche.

La lezione che si potrebbe trarre da quanto è successo nella Repubblica Federale Tedesca è piuttosto la preminenza delle qualità dei candidati sul colore dei loro vestiti e la domanda di disporre per l’uscita dalla crisi innescata dalla pandemia di una certa dialettica fra posizioni ragionevoli che non hanno paura di confrontarsi (e questo è un lascito positivo delle esperienze di “grande coalizione”, al di là delle apparenze). Non è un caso che siano iniziati negoziati ad ampio raggio fra i maggiori partiti, senza che nessuno abbia messo subito i suoi “paletti” secondo un costume a cui a casa nostra siamo molto affezionati. Ovviamente come finirà non è scritto, e dunque staremo a vedere.

Nel cogliere insegnamenti da quel che è successo in Germania ci sembra prevalere negli ambienti che contano un duplice dilemma. Il primo riguarda la convenienza o meno di continuare a sventolare il vessillo del bipolarismo. Si può capire che convenga ai vertici attuali dei grandi partiti (anche se, a ben guardare, solo fino ad un certo punto), ma ci si può ben chiedere se convenga al paese. Il favorire una dialettica post voto di composizione delle maggioranze di governo potrebbe moderare gli appetiti delle ali estreme dei partiti, che perderebbero i loro poteri di condizionamento, e consentire un confronto a largo raggio che di fatto favorirebbe l’alternanza delle soluzioni. Naturalmente si dirà che questo sottrae al cittadino il diritto di scegliere lui il governo, ma si dimentica che l’interesse di quel cittadino è più quello di avere un buon governo nel contesto di un sistema che funziona, che non quello di agevolare le vittorie delle minoranze dei pasdaran delle diverse coalizioni (arlecchino). La seconda lezione da cogliere è che, nel momento in cui è tramontata l’era delle grandi fedeltà ideologiche, torna preminente il peso della qualità e affidabilità dei candidati. Sappiamo benissimo che c’è sempre e sempre ci sarà una quota di consensi riservati al “trascinatore di folle” di turno (chiamatelo demagogo, influencer, o come volete), ma fa parte delle debolezze della natura umana e c’è poco da fare. Ciò che conta è che in ultimo emerge la domanda di persone che sappiano dare un apporto reale al governo del paese, dalla maggioranza o dall’opposizione che sia. Sperabilmente che alcune di queste abbiano anche le qualità per “reggere il timone”.

Ciò rimanda al dibattito nemmeno tanto sotterraneo che si sta sviluppando in questi giorni: come si può sfruttare al meglio l’occasione-Draghi? Paradossalmente siamo bloccati, almeno in buona parte, dalla difficoltà di clonarlo, perché lo si vorrebbe contemporaneamente al Quirinale, dove c’è bisogno di molta “autorità” per guidare la coesione del paese, e a Palazzo Chigi, dove c’è bisogno di esercizio affidabile e competente del “potere” per guidare la lunga partita della ricostruzione post-pandemia. Colpisce che i partiti siano incapaci di affrontare il problema, perché ovviamente Draghi non è la pecora Dolly e non si può clonare (peraltro in quel caso non sembra sia finita benissimo), ma non si può credere che non sia possibile creare le condizioni per avere “autorità” sul Colle e “potere competente e responsabile” al vertice del governo.

Sappiamo benissimo che non è impresa facile per tante ragioni: siamo carenti di politici di visione, il dibattito pubblico è più teatrino che incubatore di interpretazioni condivise e approfondite sul nostro futuro, che lo shock pandemico e post-pandemico ha seminato e continua a seminare disorientamento e angoscia fra i cittadini. Eppure non si può evitare la sfida che pone questa situazione.

Per dirla in termini semplificati essa fa perno su tre questioni:

1) fissare con responsabilità le caratteristiche che si richiedono al futuro inquilino del Quirinale, accettando che esso di fatto avrà poteri di indirizzo e “moderazione” molti forti sull’andamento del nostra politica (chiamatelo, se vi piace, semi-presidenzialismo all’italiana);

2) individuare una riforma elettorale che consenta di andare alla “conta” fra non molto per vedere la reale distribuzione del consenso, ma senza che ci siano le condizioni perché vinca qualcuno che poi pensa solo ad accrescere i guadagni per sé e per la sua parte;

3) configurare la posizione del Presidente del Consiglio sempre più come quella di un premier che sia certamente soggetto al controllo della fiducia parlamentare, ma non con modalità che favoriscano i giochetti di fazione e che servano a bloccare la sua capacità di “governare”.

E’ illusorio chiedere alle classi dirigenti italiane, politiche, ma non solo, di mettersi al più presto a lavorare su questo terreno prima che una sregolata gestione della corsa alle elezioni presidenziali e delle conseguenze del test delle prossime amministrative faccia perdere al Paese quanto ha conquistato con l’esperienza traumatica di quest’ultimo anno? Dobbiamo sperare di no.


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