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NEL 2018 alle elezioni politiche trionfò un movimento che voleva espugnare la cittadella del potere per azzerare le istituzioni piegandole ad un nuovo tipo di rapporto eletti-elettori: non più la democrazia delegata con fulcro nel Parlamento “da aprire come una scatoletta di tonno”, bensì la democrazia diretta da gestire attraverso una piattaforma digitale privata, quella di Casaleggio.

Quel movimento si nutriva di idealità antiscientifiche, dalle scie chimiche agli allunaggi che erano nient’altro che puerili miraggi; di un senso di rabbia e paura di una fetta di ceto medio che temeva di perdere il benessere acquisito e di periferie che quel benessere non l’avevano mai avuto e volevano strapparlo a chi lo deteneva. L’animava una ideologia confusa e velleitaria, contro tutto e tutti.

Quasi quattro anni dopo, il primo partito italiano – almeno nella valutazione della giostra dei sondaggi – è una forza di destra, più o meno estrema a seconda di quale avversario la giudica, l’unica a voler stare all’opposizione di un governo “ricostruttivo”, fiancheggiatore della cultura No Vax e no Green Pass, che, a parte la obbligata solidarietà, neppure di fronte all’assalto ad un sindacato riesce a dire di essere antifascista.

Non lo fa non per ammantarsi nelle rimembranze del Ventennio ma perché culturalmente prima ancora che politicamente, delegittima la questione a merce da robivecchi. Giorgia Meloni non pensa le sia utile sillabare in una qualche forma che risulti essere convincente quel che il 13 settembre del 2008 ad una festa dei “suoi” giovani di Atreju, disse l’allora leader dei An, Gianfranco Fini: “Ci sono valori, presenti nella Costituzione, che hanno guidato e devono guidare il cammino della Destra e sono la libertà ed il principio di solidarietà o giustizia sociale. Sono valori tipici di ogni democrazia perché non può esistere una democrazia che neghi eguaglianza, libertà e giustizia sociale. Quei tre valori sono valori che a pieno titolo possono essere definiti antifascisti”.

È sbagliato stabilire parallelismi tra FdI e il grillismo del M5S d’antan. Non è sbagliato, anzi necessario, aprire bene gli occhi sul fatto che continua ad esistere nella pancia dell’Italia un focolaio di protesta, di disagio, di ribellismo che sfocia in rivolta, perfino con atti di squadrismo, alla stregua di un fiume che trova sbocco là dove può. Nella palingenesi e rovesciamento “di quelli di prima” o nella pandemia e nelle misure restrittive messe in atto dal governo per prosciugare l’acqua in cui nuota il Covid, vissute come inaccettabili restrizioni alla libertà individuale esattamente come salvifiche erano le picconate dei coretti che intonavano “onestà, onestà”.

È un magma, un impasto fatto di insofferenza e disperazione che mette sotto accusa e rifiuta le regole democratiche: una palude che alcune forze politiche e sociali vogliono guatare pensando di trovare forza e alimento, mentre altri usano come nascondiglio da cui emergere all’improvviso per fomentare disordini e violenze.

Al 2018 ad oggi sono accadute molte cose. La forza elettorale del MoVimento si è più che dimezzata rifluendo in massima parte su Lega e FdI prima di rifugiarsi nell’astensionismo. I Cinquestelle – almeno la gran parte di loro – hanno accettato le regole del gioco democratico finendo per trovare nelle istituzioni protezione, ristoro e convenienze. Pur se qua e là continuano a spuntare anarcoidi fuochi fatui. Come la proposta di Beppe Grillo non di accettazione del Green pass bensì di tamponi gratis per tutti a carico dello Stato: proposta “pacificatoria” nella mente dell’Elevato; nei fatti confermatoria della vocazione a rigettare e non adeguarsi ai doveri di comunanza.

Dal 2018 Fratelli d’Italia, anche per l’innegabile affinamento delle capacità leaderistiche della Meloni, è cresciuta moltissimo, succhiando buona parte dei consensi che Salvini a suo tempo aveva carpito al M5S. Ora la destra di Giorgia è all’opposizione mentre il Capitano, con quello che resta dei Pentastellati, sono assieme in maggioranza.

Ma quel senso dei straniamento, quell’insofferenza sorda e acida, quel disadattamento che non trova né riparo né soluzione stanno ancora lì, navigano in un universo “altro” che si nutre di reddito di cittadinanza e grida contro il Palazzo perché non sa fare altro, non riesce a trovare sbocco e si nutre di scarsa e discontinua rappresentanza.

Questo magma è un problema per tutti. In primo luogo per Lega e FdI che vi occhieggiano senza comprenderne appieno la pericolosità e l’impossibilità di convivenza o peggio contiguità se si aspira al governo di uno dei Paesi più industrializzati e avanzati del mondo. Così, mentre il MoVimento è inciampato nella governabilità venendone devastato, Giuseppe Conte è stato “il presidente di tutti i Consigli”, come lo apostrofa il pd Umberto Ranieri, rimanendo però imbrigliato nelle contraddizioni della transumanza dallo splendido isolamento politico all’obbligo di alleanze, le due formazioni di destra invece dei vaccinarsi contro i germi del ribellismo li hanno vellicati convinti di riuscire a domarli e usarli ai propri fini.

In realtà il modo migliore – che poi finisce per essere l’unico – per dare risposte in positivo alle angosce e malmostosità di quel pezzo d’Italia che vive di risentimento, è quello di fare le riforme, cambiare in meglio il Paese, dare opportunità e prospettive a chi sta peggio. Alcuni comunque non ci staranno; il grosso non potrà che arrendersi all’evidenza. È il metodo Draghi: serietà, competenza, cose fatte e non solo enunciazioni. È questa la scommessa, è questo il terreno di gioco. È così che si toglie ossigeno ai violenti.


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