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Il presidente dell'Anci Antonio Decaro

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Bilanci in rosso, crediti deteriorati, piante organiche in deficit, criticità di vario genere. Uno studio dell’Anci, presentato ieri alla Camera, alla Commissione per l’attuazione del federalismo fiscale, certifica per molte municipalità del Centro Sud la quasi impossibilità di svolgere “costituzionalmente le funzioni assegnate”.

Il risultato di un gap infrastrutturale storico a cui si aggiunge un effetto trascinamento. L’ effetto dell’impatto che hanno avuto sui bilanci le misure anti-Covid. Da qui l’esigenza di “un intervento strutturale in grado di assorbire in modo sistematico i divari esistenti”.

GAP INFRASTRUTTURALE

Il presidente dell’Anci, Antonio Decaro, sindaco di Bari, insieme al sindaco di Novara, Alessandro Canelli hanno portato alla Camera il grido di dolore dei loro colleghi. Il 15% dei comuni italiani è sull’orlo del dissesto. L’uscita dalla crisi – citiamo la relazione – non deve ridursi al ripristino della situazione quo ante, bensì deve delineare le condizioni per un nuovo slancio di sviluppo anche in chiave di abbattimento dei dualismi strutturali che frenano il dispiegamento”.

Non ci sono scappatoie. Gap infrastrutturale più Covid hanno prodotto una miscela esplosiva. La crisi riguarda anche una decina di città del Centro Nord ma coinvolge soprattutto gli enti locali del Sud, delle Isole e delle aree interne appenniniche. Indebitati fino all’osso, messi a dura prova dalle richieste di sospensione degli obblighi fiscali, Imu, Tari, canone unico, ultima spiagge per il sostegno alle famiglie più povere. Questi comuni sono allo stremo.

L’analisi della finanza locale degli ultimi mesi rimanda l’immagine di un’Italia sempre più spezzata. Uno specchio deformato in cui si riflette un “quadro di permanente e asimmetrica fragilità amplificata dalla crisi pandemica”. Nessuno può issarsi su un piedistallo e dire “non mi riguarda”. I disavanzi sono numeri e i numeri parlano da soli. Le misure di rientro fin qui adottate non bastano.

L’Italia delle 100 città, il Campanile al centro del villaggio, il logo della città ideale di Campanella. Il simbolo delle libertà locali e individuali. Con le casse comunali in rosso fisso entra in crisi il modello italiano dei piccoli comuni. La municipalità come governo di prossimità in grado di assolvere alla loro vocazione naturale. Va a picco il mito della comunità solidale.

LE DUE MINACCE

Due le minacce che incombono. La prima, lo abbiamo detto è il disavanzo. Il risultato di amministrazione netto (RAN evidenzia l’asimmetria tra i Comuni in positivo (l’85%) e una significativa minoranza in negativo. Per dirla, tornando ai tempi del vinile, con un esempio da juke-box, c’è un’Italia che viaggia a 75 giri e un’altra a 33 giri in perfetto contrasto armonico.

Sono finiti i tempi in cui i sindaci entravano a Palazzo e urlavano al mondo la loro indignazione. Oggi si parla con le tabelle. Dicono che il 20% della popolazione italiana è sotto la tutela amministrativa di enti che hanno un bilancio di segno meno. Il disavanzo aumenta in rapporto alla dimensione dell’ente locale, ad eccezione dei comuni che hanno una popolazione compresa tra i 100 mila e i 250 mila abitanti. L’Italia delle Provincia è la più virtuosa.

La seconda minaccia è costituita dai cosiddetti Fdce, i crediti di dubbia esigibilità. I Comuni italiani ne hanno in cassa una enormità. Il totale complessivo è pari a 4,9 miliardi di euro, circa 80 euro per abitante, il 7,6% degli accertamenti totali. Dentro c’ di tutto: multe non riscosse, cause civili per controversie legali che si trascinano da anni, etc, etc.

Gli enti locali hanno assorbito nel corso degli anni l’incidenza dei tagli: circa 12 miliardi di euro tra il 2010 e il 2015. E su tutto pesa la riforma inattuata del TItolo V, un tormentone che si ripete. Non più tardi di martedì scorso era toccato al presidente della Conferenza delle regioni Massimiliano Fedriga aggiornare il cahier de doléance. Con una rivendicazione del tutto fuori contesto: la necessità di trattenere sui territori delle regioni a statuto autonomo più Irpef e più risorse in un quadro di più spinta autonomia finanziaria. Una richiesta rinnovata ieri dal rappresentante dei sindaci ma dentro un perimetro molto diverso, la necessità di superare un sistema di finanza derivata in favore di un sistema basato sui fabbisogni e capacità fiscali standard.

L’Anci chiede di salvaguardare le risorse dei comuni più piccoli, in particolare quelli delle aree interne soggetti a spopolamento. Rivela come il sistema di finanziamento perequativo avviato nel 2015 sulla base dei fabbisogni fiscali standard sia ancora distante dall’impianto costituzionale dettato dalla legge 42/90. E ricorda come non siano assicurati ovunque i livelli minimi delle prestazioni (Lep) che andrebbero costituzionalmente garantiti.

BENE GLI INVESTIMENTI

Le difficoltà determinate dalla pandemia nel corso del 2020 non hanno ridotto la capacità dei comuni in termini di investimenti. I pagamenti sono complessivamente aumentati del 2,3%, con una spesa erogata pari a 10 miliardi. Nei primi sei mesi del 2021 si è registrato un incremento del 23% con una ripresa netta, ai livelli pre-Covid. Per continuare su questa strada i sindaci italiani chiedono innanzitutto finanziamenti diretti e non intermediati; la semplificazione del codice degli appalti e allentamento dei vincoli sulle assunzioni. Queste ultime due richieste sono contenute nel PNRR ma potrebbero non bastare.

Che cosa fare per i comuni in crisi finanziaria? La proposta Anci è di rafforzare i dispositivi di sostegno, Centocinquanta comuni in base agli attuali criteri in vigore non hanno potuto accedere a stanziamenti aggiuntivi e sono rimasti esclusi “pur risultando in condizioni del tutto simili ad altri enti che ne hanno beneficiato”. Un caso limite.         


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