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È anche sulla sanità che si misura la tutela dei diritti di cittadinanza che un Paese è in grado di assicurare ai propri cittadini. E se guardiamo al nostro di Paese non servono i conti della spesa statale per dire che il diritto alla salute “distingue” i cittadini del Sud da quelli del Nord. Lo provano gli ospedali poco attrezzati, con strutture spesso fatiscenti, che accolgono i pazienti nelle regioni meridionali, l’esiguo numero di medici e infermieri che ne popolano le corsie, i macchinari obsoleti, le liste d’attesa. E i numeri del turismo sanitario che ogni anno registrano le partenze di calabresi, pugliesi, siciliani, lucani e campani in cerca di cure migliori negli ospedali del Nord, a vantaggio di una sanità che crea profitti per i privati, mentre nel Mezzogiorno apre “buchi” nei bilanci degli enti locali. Ma i numeri contano e in questo caso spiegano le ragioni di una sanità “malata” al Sud, che risiedono nel riparto dei fondo sanitario nazionale sulla base della spesa storica che da anni fa sì che, a parità di popolazione, il Nord riceva più soldi per le sue strutture ospedaliere.

E nel futuro non andrà meglio, dal momento che il nuovo sistema di valutazione e verifica dei Lea (Livelli essenziali di assistenza), approvato nel dicembre del 2018 e che entra in vigore quest’anno, rischia di penalizzare ulteriormente le regioni meridionali. Nessuna sorpresa, quindi, nello scoprire che nel documento circolato qualche settimana fa che “abbozzava” la ripartizione dei 37 miliardi del Mes – su cui nella maggioranza ancora restano alte le resistenze del Movimento 5 Stelle – ancora una volta veniva cristallizzata la sperequazione delle dotazione delle risorse a beneficio delle regioni settentrionali e la sopravvivenza di un sistema sanitario che distingue tra serie A e serie B. Alle risorse comunitarie del Recovery Fund – e alle pressioni delle istituzioni europee affinché i Paesi intervengano sui rispettivi divari territoriali – è affidata la possibilità di un riequilibrio e di dotare il Mezzogiorno di una sanità efficiente, ma nelle prime riunioni della cabina di regia sono già emersi orientamenti egoistici e miopi: chiedendo che il trasferimenti dei dei fondi avvengano secondo i criteri in uso, il presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini – che è anche presidente della Conferenza delle Regioni – ha già chiesto più soldi per il Nord.

LO SCIPPO DELLA SPESA STORICA

Da oltre 15 anni il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali. E nel 2020 non è andata diversamente, dal momento che il riparto del fondo sanitario nazionale ha seguito lo stesso spartito di sempre.

Così, su 113,3 di dotazione complessiva, alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, sono stati riservati 7,49 miliardi mentre all’Emilia Romagna, con 4,4 milioni, 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. E se si considera il Veneto, con i suoi 4,9 milioni di abitanti, la sproporzione resta, visto che la Regione governata da Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione guidata da Emiliano. Considerando la spesa pro-capite, ne discende che per curare un cittadino pugliese lo Stato spende 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. Qualche altro numero per illustrare la scena: restando al Sud, la Campania, avrà 10,6 miliardi, 1.827 euro per ciascuno dei suoi 5,8 milioni di residenti che possono far affidamento su 42mila operatori sanitari impiegati a tempo indeterminato; la Calabria 3,6 miliardi e 1.800 euro per cittadino (ha quasi due milioni di abitanti che possono contare su un personale che conta 18mila unità). Guardando al Nord, alla Lombardia e al Piemonte andranno, rispettivamente, 18,8 miliardi (1.880 euro pro capite per i 10 milioni di residenti curati da 95mila tra medici e infermieri) e 8,33 miliardi (4,35 milioni di abitanti: circa 1.935 euro per residente. E un staff sanitario di 53mila persone). Dal 2012 al 2017, poi, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno visto aumentare la loro quota del fondo del 2,36%, ricevendo quindi dallo Stato poco meno di un miliardo in più (944 milioni), rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria per le quali l’aumento è stato pari soltanto dell’1,75%.

LA RIFORMA DEI LEA PENALIZZA IL MEZZOGIORNO

Alla luce di questi numeri, il nuovo sistema di verifica e valutazione dei Lea rischia di penalizzare ulteriormente le regioni meridionali, che potrebbero ritrovarsi con minori trasferimenti da parte dello Stato.

Sono previsti, infatti, criteri più severi per giudicare la qualità e l’efficienza dei sistemi sanitari regionali e per quelli del Sud, dopo decenni di tagli, è difficile superare l’esame. Come mostra una simulazione svolta dal Comitato Lea, organo del ministero della Salute: solo 11 Regioni su 21 risultano essere adempienti, quindi sarebbero promosse e le “inadempienti” sono quasi tutte del Sud, ovvero Campania, Calabria, Molise, Basilicata, Sicilia, Lazio, Sardegna. Ad ottenere la promozione sarebbero soltanto Puglia e Abruzzo. Superare l’esame con la “sufficienza” vuol dire poter contare su una premialità del 3% nel riparto del fondo sanitario, al netto delle entrate proprie, che per le regioni del Sud equivale a circa un miliardo di euro.

LE RISORSE DEL MES

Lo scippo al Sud sulla base della spesa storica rischierebbe di perpetrarsi anche sulla ripartizione tra le regioni dei fondi del Mes, stando alla bozza che, secondo quanto si è raccontato, sarebbe servita per ingolosire i governatori del Veneto e Lombardia, provati dall’emergenza Covid 19, spingendoli a far pressione sulla Lega e a scioglierne le resistenze. Alla Lombardia e al Veneto, infatti, andrebbero oltre 9 dei 37 miliardi riservati all’Italia, un quarto di tutta la torta: il 16,64% alla prima, l’8,14% alla seconda. In particolare, alla Lombardia, che prima del Covid era considerata una eccellenza sanitaria nazionale, andrebbero 6 miliardi e 158 milioni: più risorse di quante ne spetterebbero a Puglia, Calabria, Basilicata, Marche, Umbria e Molise messe insieme.


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