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Anche la seconda ondata di contagi, senza lockdown questa volta, sarà affrontata non ad armi pari. Le Regioni del Sud dovranno fare le capriole per evitare che i propri sistemi sanitari vengano travolti: con meno dipendenti e meno posti letto rispetto al Nord, servirà una impresa. O un miracolo. Il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, ha giocato di anticipo e ha dato vita ai primi mini lockdown.

Gli sono piovute addosso critiche, ma i numeri dicono che il presidente campano è solo previdente e cauto. La Campania, infatti, che fa 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari; in Emilia Romagna (4,4 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiora le 100mila unità.

In Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; persino il Lazio (5,8 milioni di abitanti) ha appena 41mila dipendenti a tempo indeterminato al lavoro nella sua sanità.

Se ci fosse bisogno ancora di una conferma delle due Italie prodotte da una iniqua ripartizione del fondo sanitario nazionale, ecco che la prova la consegna direttamente la Corte dei Conti nel suo “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica”.

Insomma, De Luca probabilmente ci ha visto lungo e chi critica evidentemente non conosce questi numeri. Far funzionare una terapia intensiva, un reparto di Malattie infettive, uno di pneumologia, per di più durante una pandemia, senza avere il personale numericamente adeguato è roba da acrobati.

«Negli ultimi due anni – scrivono i giudici contabili – sono divenuti più evidenti gli effetti negativi di due fenomeni diversi che hanno inciso sulle dotazioni organiche del sistema di assistenza: il permanere per un lungo periodo di vincoli alla dinamica della spesa per personale e le carenze, specie in alcuni ambiti, di personale specialistico. Come messo in rilievo di recente, a seguito del blocco del turn-over nelle Regioni in piano di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni adottate anche in altre Regioni (con il vincolo alla spesa), negli ultimi dieci anni il personale a tempo indeterminato del Sistema sanitario nazionale è fortemente diminuito. Al 31 dicembre 2018 era inferiore a quello del 2012 per circa 25.000 lavoratori (circa 41.400 rispetto al 2008)».

Le Regioni in Piano di rientro sono quelle del Sud, che per anni, 10 la Puglia ad esempio, essendo sotto il controllo dei ministeri della Salute e dell’Economia non hanno potuto assumere.

«Tra il 2012 e il 2017 – si legge ancora nella relazione della Corte dei Conti – il personale (sanitario, tecnico, professionale e amministrativo) dipendente a tempo indeterminato in servizio presso le Asl, le aziende ospedaliere, quelle universitarie e gli Irccs pubblici è passato da 653 mila a 626 mila con una flessione di poco meno di 27 mila unità (-4 per cento). Nello stesso periodo il ricorso a personale flessibile in crescita di 11.500 unità ha compensato questo calo solo in parte: si tratta in prevalenza di posizioni a tempo determinato, che crescono del 36,5 per cento (passando da 26.200 a 35.800), e di lavoro internale, che registra una variazione di poco meno del 45 per cento (da 4.273 a 9.576 unità)».

Ma, ovviamente, le assunzioni a tempo determinato non possono sopperire alla carenza negli organici per un semplice motivo: si tratta di personale che dopo 6 o 12 mesi non si vede rinnovare i contratti e si è punto e accapo. «La riduzione del personale – mette in rilievo la Corte dei Conti – ha assunto caratteristiche e dimensioni diverse tra Regioni in Piano di rientro (cioè quelle del Sud, lo ricordiamo ndr) e quelle non in Piano. Nelle prime, il personale a tempo indeterminato si è ridotto di oltre 16.000 unità, pressocché tutte a tempo pieno, mentre sostanzialmente invariato è rimasto il personale a tempo parziale, pur modificato nella composizione tra part time a meno del 50 per cento del tempo a più del 50 per cento. La riduzione è stata particolarmente forte nel Molise, nel Lazio e in Campania a cui sono riferibili riduzioni superiori tra il 9 e il 15 per cento. Solo poco inferiori quelle di Calabria e Sicilia, mentre Abruzzo e Puglia hanno contenuto di molto le riduzioni, soprattutto considerando gli incrementi del personale a tempo determinato».

Invece, nelle Regioni non in piano, quelle del Nord, «la flessione è stata molto più contenuta (-2,4 per cento)», rilevano i giudici. Anche sui posti letto le differenze sono notevoli: nel 2012 in Puglia c’erano 3,12 posti letto ogni mille residenti, nel 2018 sono scesi a 2,88 ogni mille abitanti; in Campania c’erano appena 2,76 posti letto ogni mille residenti, sei anni dopo si è passati addirittura a 2,62; in Calabria la percentuale era di 2,92, adesso è di 2,54; in Sicilia si è passati da 2,89 a 2,75 posti letto ogni mille abitanti; in Basilicata da 3,24 a 2,84. Nelle Regioni del Nord, invece, il taglio dei posti letto negli ospedali è stato molto più contenuto, quasi impercettibili: la Lombardia nel 2012 disponeva di 3,76 posti letto ogni mille residenti, oggi ne ha 3,47; il Veneto è passato da 3,44 a 3,27; il Friuli Venezia Giulia da 3,53 a 3,13; il Piemonte da 3,70 a 3,36; la Liguria da 3,44 a 3,22; l’Emilia Romagna che nel 2012 disponeva addirittura di 4,17 posti letto ogni mille cittadini, oggi comunque può contare su 3,68 posti ogni mille. 


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