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I ventilatori consegnati alle Regioni dalla Protezione civile sono 4.694, distribuiti quasi tutti durante la prima fase dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia di coronavirus. Ma la stragrande maggioranza di respiratori è stata fornita agli ospedali del Nord, perché durante la prima ondata erano quelli in maggiore difficoltà con l’allestimento dei posti letto di terapia intensiva. Così, a oggi, secondo i dati ufficiali della Protezione civile aggiornati al 15 ottobre 2020, alla Lombardia sono stati dati 699 ventilatori, 418 al Veneto, 610 all’Emilia Romagna: insieme fanno 1.727 respiratori, oltre un terzo di quelli distribuiti.

A questi poi vanno aggiunti i 233 ventilatori dati al Piemonte, 279 alla Toscana, 82 al Trentino Alto-Adige, 77 al Friuli Venezia Giulia, 148 alla Liguria e 210 alle Marche. Totale: 2.756. Al Sud, la regione che ha ricevuto il maggior numero di respiratori risulta essere la Campania con 458 unità, ma si tratta anche del territorio con il più alto indice di densità popolare; seguono la Sicilia (295) la Puglia (258), la Calabria (193), la Basilicata (61), il Molise con 38 respiratori. Totale: 1.303. Il Lazio ne ha ottenuti appena 326.

LA DISPARITÀ

Se questa disparità era giustificata a marzo e aprile, perché il Mezzogiorno effettivamente era stato favorito e salvato dal lockdown che aveva limitato i danni, oggi non è più così: la seconda ondata sta colpendo la Campania e lo stesso Lazio quanto la Lombardia e il Veneto. Anche prendendo in considerazione tutto il materiale anti Covid dato alle Regioni (mascherine, tute, guanti, calzari, termometri, saturimetri, pompe, tamponi, etc) c’è una notevole disparità di trattamento. Ad esempio, alla Lombardia sono stati consegnati, nel complesso, quasi 150 milioni di pezzi; al Veneto 138; all’Emilia Romagna 94; alla Toscana 84.

La prima regione del Sud è la Puglia con 72 milioni di pezzi, segue la Sicilia (39 milioni), la Campania 35 milioni, la Calabria appena 14,7 milioni, il Molise ultimo 8,3 milioni. C’è evidentemente qualcosa che non va, i conti non tornano: la pandemia ormai è uniforme nel Paese, anche la distribuzione delle “armi” per combatterla dovrebbe essere uguale. Invece, le Regioni del Mezzogiorno devono anche questa volta fare i conti con meno strumenti e risorse.

IL GAP NEGLI ORGANICI

Un Sud che è già penalizzato dal punto di vista degli organici negli ospedali: la Campania, infatti, che ha 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari; in Emilia Romagna (4,4 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiorano le 100mila unità. In Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; persino il Lazio (5,8 milioni di abitanti) ha appena 41mila dipendenti a tempo indeterminato al lavoro nella sua sanità. I numeri sono messi nero su bianco dalla Corte dei Conti nel suo “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica”.

Ieri il governatore pugliese, Michele Emiliano, ha lamentato proprio il numero limitato di dipendenti e l’impossibilità ad assumere personale senza limitazioni. «Questa volta – ha annunciato il presidente della Regione Puglia – non chiuderemo i reparti ordinari, che continueranno a lavorare, ma il personale è sempre quello, purtroppo. Abbiamo chiesto al governo ulteriori facilitazioni e assunzioni che invece non ci sono state».

LA CORTE DEI CONTI

Far funzionare una terapia intensiva, un reparto di Malattie infettive, uno di pneumologia, per di più durante una pandemia, senza avere il personale numericamente adeguato è roba da acrobati. «Negli ultimi due anni – scrive la Corte dei conti – sono divenuti più evidenti gli effetti negativi di due fenomeni diversi che hanno inciso sulle dotazioni organiche del sistema di assistenza: il permanere per un lungo periodo di vincoli alla dinamica della spesa per personale e le carenze, specie in alcuni ambiti, di personale specialistico. Come messo in rilievo di recente, a seguito del blocco del turn-over nelle Regioni in piano di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni adottate anche in altre Regioni (con il vincolo alla spesa), negli ultimi dieci anni il personale a tempo indeterminato del Sistema sanitario nazionale è fortemente diminuito. Al 31 dicembre 2018 era inferiore a quello del 2012 per circa 25.000 lavoratori (circa 41.400 rispetto al 2008)».

Le Regioni in Piano di rientro sono quelle del Sud, che per anni (la Puglia, ad esempio, per 10 anni) essendo sotto il controllo dei ministeri della Salute e dell’Economia non hanno potuto assumere.


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