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NEL 2006 il sistema sanitario dell’Emilia Romagna, 4,4 milioni di residenti, riceveva un finanziamento di 7 miliardi; la Puglia (4,1 milioni di abitanti), invece appena 6 miliardi: una differenza netta di un miliardo nonostante una popolazione simile. Tredici anni dopo, nel 2019, però la situazione è addirittura peggiorata: l’Emilia Romagna, infatti, è passata ad un finanziamento di 9,3 miliardi, mentre la Puglia di 7,4 miliardi. In sostanza, la Regione di Bonaccini ha visto lievitare la sua fetta del fondo sanitario nazionale di 2,3 miliardi; i pugliesi hanno ottenuto 1,4 miliardi in più. Una differenza di quasi un miliardo che pesa oggi sullo stato di salute dei due sistemi sanitari: meno fondi, equivale a meno personale da poter assumere, ospedali e attrezzature più obsolete.

È quanto emerge dal Rapporto sul monitoraggio della spesa sanitaria 2020 della Ragioneria di Stato, una relazione che conferma quanto già messo nero su bianco dalla Corte dei Conti: sulla sanità, e non solo, lo Stato fa figli e figliastri, garantendo maggiori risorse al Nord rispetto al Sud. Ad esempio, il Veneto (4,9 milioni) è passato da 7,7 a 9,7 miliardi; il Piemonte da 7,1 a 8,6, la Lombardia da 15,3 a 20 miliardi. La Calabria, invece, nel 2006 riceveva 2,9 miliardi, nel 2019 è passata a 3,3 miliardi: appena 400 milioni in più in 13 anni. La Basilicata da 914 milioni è “cresciuta” sino a 1,04 miliardi. Tutto questo nonostante «al contenimento del tasso di crescita della spesa sanitaria complessiva registrato a livello nazionale hanno concorso, in misura significativa, le regioni sottoposte ai piani di rientro», scrivono i tecnici della Ragioneria.

Le Regioni in piano di rientro sono proprio quelle del Sud, commissariate e controllate dai ministeri della Salute e dell’Economia. «Infatti – si legge ancora nel rapporto – queste ultime hanno fatto registrare, nel periodo 2003-2006, un tasso di crescita medio annuo della spesa sanitaria pari al 6,6% che, nel quinquennio successivo si riduceva al 4,1% per diventare sostanzialmente nullo tra il 2012 e il 2019. Sull’intero orizzonte temporale considerato la spesa sanitaria delle regioni non in piano di rientro è passata dal 5,4% del primo quadriennio all’1,3% degli ultimi otto anni. Di contro, le autonomie speciali partite da un tasso di crescita media annua del 4,6% tra il 2003 e il 2006 sono giunte a una variazione media annua di poco superiore allo zero (+0,7%) nell’ultimo periodo». Non solo: le Regioni del Mezzogiorno sono anche quelle che hanno migliorato i loro risultati d’esercizio. «È evidente – si legge ancora – il miglioramento progressivo della situazione economico-finanziaria del sistema, specie con riferimento alle regioni in piano di rientro per le quali la consistenza del disavanzo risulta essersi notevolmente ridotta in termini assoluti. Tale risultato conferma che, in generale, lo strumento dei piani di rientro determina una maggiore responsabilizzazione dei comportamenti delle regioni interessate, anche in relazione alle puntuali verifiche predisposte dai Tavoli di monitoraggio».

Insomma, anche la Ragioneria di Stato certifica che i conti non quadrano. Per la salute e le cure sanitarie dei propri cittadini, lo Stato italiano ha avuto “attenzioni” diverse. Per un pugliese, ad esempio, al termine del 2020 spenderà complessivamente 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e i 1.877 ad un veneto. È questa la quota pro-capite che emerge dalla ripartizione del fondo sanitario nazionale dell’anno in corso. Per ogni lombardo, lo Stato destina 1.880 euro; per un campano, invece, 1.827 euro. Ma peggio va ai calabresi, ai quale spetta appena 1.800 euro a testa, contro i 1.916 euro che “riceve” ogni friulano, i 1.935 euro di spesa pro capite del Piemonte o i 1.917 euro della Toscana.

Chi sperava in una inversione di rotta almeno dopo una pandemia che ha stravolto le nostre vite e i nostri sistemi sanitari resterà deluso. Il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali, come accade ormai da oltre 15 anni. E nel 2021 potrebbe persino incassarne ancora di più, la doppia beffa si potrebbe concretizzare a fine anno. Anziché ricevere più risorse, quasi tutte le Regioni del Sud per la loro sanità rischiano seriamente di ritrovarsi con meno fondi trasferiti dallo Stato. Il nuovo sistema di verifica e valutazione dei Lea (i Livelli essenziali di assistenza), che entra in vigore da quest’anno, prevede criteri più severi per giudicare la qualità e l’efficienza dei sistemi sanitari regionali e, stando ad una simulazione svolta dal Comitato Lea – organo del ministero della Salute – solo 11 Regioni su 21 risultano essere adempienti, quindi sarebbero promosse. Le “inadempienti” sono quasi tutte del Sud: Campania, Calabria, Molise, Basilicata, Sicilia, Lazio, Sardegna, si salvano soltanto Puglia e Abruzzo. Il documento della simulazione è riportato dalla Corte dei Conti nel suo ultimo Report sul coordinamento della Finanza pubblica.

Superare il giudizio del Comitato Lea non è fine a sé stesso: riuscire a raggiungere un punteggio di sufficienza garantisce alle Regioni lo sblocco di ulteriori fondi, una quota premiale pari al 3% del riparto del fondo sanitario al netto delle entrate proprie. Per intenderci, parliamo di svariati milioni di euro, complessivamente per il Mezzogiorno circa un miliardo di euro. Insomma, superare “l’esame Lea” significa poter ricevere soldi. Peccato, però, che prima di “inasprire” i criteri per valutare la qualità delle cure, nessuno si sia preoccupato di mettere fine allo “scippo” che il Mezzogiorno subisce da almeno 15 anni anche nel settore sanitario. E’ un dato di fatto ormai certificato da tutti che il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali. Anche nel 2020, infatti, il riparto del fondo sanitario nazionale ha seguito logiche inique: meno risorse a parità di popolazione.

È lo scippo della spesa storica che prosegue, qualche esempio? Nel confronto tra il 2010 e il 2020, l’incremento percentuale del Fondo sanitario nazionale ha premiato il Nord: negli ultimi 10 anni la Lombardia ha visto aumentare la propria fetta dell’11,4%, l’Emilia Romagna del 9,9%; 8,2% in più per la Toscana. La Basilicata, invece, ha avuto un incremento percentuale molto più modesto (+4,9%); l’Abruzzo del 6,7%; Calabria +5,7%; la Puglia e la Campania di circa l’8,1%. Non solo: dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno. Tradotto in euro, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria.


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