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La questione della salute – da sempre fondamentale – è diventata addirittura scottante da quando è scoppiata la pandemia del Covid-19. Una pandemia che ha grossi risvolti territoriali. Il primo che viene alla mente è quello istituzionale. La Costituzione, con la revisione costituzionale del Titolo V°, ha creato, come scritto su queste colonne il 27 novembre, «una chimera, un ibrido fra Stato federale e Stato unitario, che ha cominciato subito a non funzionare e continua a non funzionare. La prova del nove si è avuta con la pandemia da coronavirus. Malgrado, come osservato da illustri costituzionalisti, la Costituzione stessa assegni allo Stato la competenza esclusiva su questioni di profilassi internazionale (art. 117), il contrasto alla pandemia è stato gestito in concorrenza fra Stato e regioni, con tutte le note conseguenze del caso».

Il secondo aspetto, dopo quello istituzional-territoriale, è quello più propriamente territoriale, cioè la diseguaglianza nelle dotazioni di “infrastrutture sanitarie” che è venuta tragicamente alla luce proprio nel momento in cui l’Italia era colpita da una pandemia senza precedenti.

Come recita il recente rapporto della Svimez, la «salute è una delle dimensioni che contribuiscono a una definizione allargata del benessere degli individui che va oltre il reddito. Diversamente dalle diseguaglianze di reddito, però, che sono in qualche misura ormai accettate a livello collettivo, le diseguaglianze nella salute sono a tutti gli effetti diseguaglianze nel benessere tra individui che, in base a un innato senso di giustizia sociale, dovrebbero essere contenute quando non addirittura eliminate».

Il Grafico A mostra quanta (colpevole) disparità vi sia, fra Nord e Sud, nel volume di risorse (pro-capite) destinate alla sanità. Dall’inizio del secolo al 2018 questo volume complessivo è fortunatamente cresciuto, ma gli abitanti del Mezzogiorno – evidentemente figli di un dio minore – hanno continuato a riceverne poco più della metà di quanto destinato al Centro-Nord. E il Grafico B mostra come, a partire da un livello già penalizzante per il Sud, la spesa reale primaria per la sanità sia andata crescendo molto meno nel Mezzogiorno rispetto alle aree più ricche del Paese, con ciò aumentando ulteriormente il divario.

Certamente, c’è un problema di qualità e non solo di quantità. Come si scrive nel Rapporto, nel «dibattito corrente di politica economica spesso si fa …confusione: si usano salute e spesa sanitaria, oppure salute e disponibilità di un (buon) ospedale come se fossero sinonimi, sulla base dell’idea che per poter (addirittura) cancellare le diseguaglianze di salute sia necessario eguagliare (ovviamente aumentandole) le risorse a disposizione dei diversi territori. Si tratta di una equazione sbagliata perché la spesa sanitaria può influenzare la salute solo attraverso servizi efficaci e appropriati (cioè davvero utili per il paziente e non utili solo per il medico o l’ospedale che li eroga), a partire dal riconoscimento del legame tra la salute e una molteplicità di altri fattori. È noto, infatti, come la salute sia influenzata, oltre che dai servizi, anche da tutta una serie di altre variabili sulle quali le politiche sanitarie non hanno alcun effetto, mentre contano altre politiche pubbliche come le politiche ambientali o le politiche del lavoro. In aggiunta, questi servizi efficaci e appropriati possono essere prodotti in modo più o meno efficiente a seconda di come vengono utilizzate le risorse, così che con le stesse risorse alcuni territori riescono a produrre più servizi rispetto ad altri.

Interrogarsi sui divari sanitari vuol dire quindi interrogarsi sulle diseguaglianze che emergono lungo tutta la catena che trasforma la spesa sanitaria in salute degli individui. Per cercare di capire dove la catena si interrompe, dove incontra difficoltà, e quindi provare a trovare rimedi efficaci». Tutto questo è vero, ma è anche vero che, come diceva Kruscev ai tempi della guerra fredda (riferendosi ai numeri delle testate nucleari), “la quantità ha una qualità tutta sua”. E, per attutire le diseguaglianze nelle risorse per la sanità, bisogna cominciare col distribuirle in modo più equo.

I numeri riportati nel Rapporto sono impietosi, e disegnano le conseguenze di queste disparità: nel «2017, la speranza di vita alla nascita media era di 80,58 anni per gli uomini e 84,92 per le donne. La regione in cui si osserva la più lunga aspettativa di vita alla nascita è il Trentino-Alto Adige (81,51 anni per gli uomini e 86,2 anni per le donne), mentre la più bassa è osservata in Campania (78,9 per gli uomini e 83,32 per le donne).

Nonostante si rilevi un generale allungamento della speranza di vita alla nascita per tutte le regioni italiane rispetto al 2007, la forbice tra le regioni rimane di 2,61 anni per gli uomini e di 2,88 anni per le donne».

Si potrebbe pensare come sia normale attendersi migliori esiti di longevità e di salute quando una regione è più ricca di altre e ha un più alto tasso di occupazione. Ma qui il cane si morde la coda: c’è una interdipendenza fra reddito e salute. La disparità di risorse non riguarda solo la sanità ma, come abbiamo già documentato in precedenza, riguarda tutta la spesa pubblica, iniquamente distribuita nel territorio con divari sostanziali e crescenti.

Come ripetuto in passato, i famosi Lep (Livelli essenziali di prestazioni), che la legislazione imponeva di creare ma che non furono mai elaborati, dovevano informare tutta l’azione redistributiva della spesa pubblica, per soddisfare l’invito costituzionale alla solidarietà. Esistono, però, i Lea (Livelli essenziali di assistenza) che riguardano la sanità. Il fatto che esistano non vuol dire che dalla conoscenza si sia passati all’azione: “Conoscere per deliberare”, diceva Einaudi, ma le ‘deliberazioni’ sono ancora in sala d’aspetto. Comunque, il fatto che i Lea esistano è positivo, e il Rapporto Svimez ha graficamente raffigurato i punteggi Lea della Penisola. I chiaroscuri si commentano da soli.

Abbiamo detto prima che è necessario non solo spendere di più ma spendere meglio, il che vuol dire che, in teoria, si potrebbe migliorare il servizio sanitario anche con meno soldi. Ma, come osserva il Rapporto, «emerge una non sorprendente relazione positiva tra spesa e punteggi Lea: a dire che se si vogliono migliorare le performance è necessario (in media) spendere di più». Ma è anche necessario un lavoro in profondità per imparare dalle “best practices” degli altri. Si chiede il Rapporto: «perché la Campania ottiene risultati migliori rispetto alla Calabria a parità di spesa? Perché il Veneto ha performance migliori della Puglia, della Basilicata e del Lazio a parità di spesa? È a questo tipo di domande che si deve provare a dare risposta se si vogliono migliorare davvero le cose per i cittadini».

Certamente, quando si vada a scavare più a fondo nei dati, emerge il fatto che «ci sono diversi ‘Nord’ così come ci sono diversi ‘Sud’ sul fronte della salute». Ma rimane il fatto che se il basso gradimento dei servizi sanitari al Sud dipende da numerosi fattori, ambientali, strutturali, organizzativi, di personale, detto gradimento «deriva anche da una meno consistente dotazione in termini di posti degli istituti di cura del Mezzogiorno rapportati alla popolazione residente. In Italia i posti letto in degenza ordinaria per 1.000 abitanti sono, nel 2018, 3,14 come sintesi di 3,33 nel Centro-Nord e 2,79 nel Mezzogiorno».

C’è molto da fare, insomma, per soddisfare a quell’elementare principio di equità che vuole, per tutti i cittadini, senza distinzione «di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (art. 3 della Costituzione) un eguale accesso alle cure sanitarie.


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