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Tracce di una possibile immunità di gregge. Niente più di questo al momento, ma comunque una buona notizia mentre si fissa l’obiettivo delle 500mila vaccinazioni al giorno per farci uscire dall’emergenza sanitaria entro la fine dell’anno. L’ipotesi viene formulata in uno studio condotto dai ricercatori dell’università di Modena e Reggio Emilia sui dati della prima e della seconda ondata di Covid. La conclusione, riportata sul magazine Environmental Research, è che la popolazione delle zone maggiormente colpite dal virus tra febbraio e maggio dello scorso anno sono risultate meno esposte allo tsunami di settembre-ottobre.

Nel complesso si tratta della prima rigorosa analisi delle relazioni fra le due fasi dell’epidemia in Italia. «Non pochi commentatori e mezzi di comunicazione – ha spiegato Marco Vinceti, tra gli autori dello studio – hanno osservato in questi ultimi mesi, cioè nel corso della cosiddetta seconda e terza ondata del Covid-19 nel nostro Paese, come aree duramente colpite dalla prima drammatica ondata della pandemia nella primavera 2020, quali le province di Lodi, Bergamo e Piacenza, fossero relativamente poco toccate dalla successiva recrudescenza dell’infezione da Sars-CoV-2. La ragione di questo esito non è tuttavia chiara e, soprattutto, mancava un’analisi sistematica di questo fenomeno, cioè delle relazioni tra intensità della prima e della seconda ondata, applicate all’intero territorio nazionale».

Suddividendo il territorio nazionale su base provinciale, i ricercatori hanno effettivamente notato che laddove la prima deflagrazione del virus aveva fatto più danni se ne sono registrati meno con la seconda. In attesa di una spiegazione univoca del fenomeno, sono state elaborate tre possibili risposte al quesito. La più suggestiva è quella, appunto, legata a un’immunità all’interno di queste zone non così lontana da quella “di gregge”, per raggiungersi la quale dovrebbe risultare protetta dall’infezione una quota compresa fra il 50 e il 70% della popolazione. Ipotesi avanzata, hanno sottolineato gli studiosi, nonostante i livelli di sieroprevalenza anticorpale dell’indagine nazionale Istat evidenziassero tassi di immunità umorale assai più bassi e comunque non superiori al 5-10% anche nelle aree più fortemente colpite.

Intermedia la possibilità che, dopo la prima ondata, in quei territori si siano sostanzialmente esauriti i cosiddetti “superdiffusori”, cioè gli individui maggiormente responsabili della trasmissione del patogeno. Contagiati nella primavera 2020, avendo sviluppato l’immunità non sarebbero più stati in grado di gonfiare le vele del virus, che avrebbe trovato terreno meno fertile per circolare liberamente. L’ultima soluzione al rompicapo paventata dai ricercatori è legata all’attivazione di un istinto di auto difesa da parte dei cittadini delle aree più martoriate durante il primo round del Covid. Questi, in sostanza, avrebbero adottato misure precauzionali più accentuate rispetto agli abitanti delle altre aree geografiche, risultando meno esposti.

Sia come sia i risultati dello studio portano comunque a delle conclusioni incoraggianti. Nei primi due casi, infatti, si confermerebbe l’avvio del processo che, nel tempo, ci porterà a un’immunità diffusa. Nell’ultimo sarebbe sancito il funzionamento del distanziamento, delle mascherine e delle pratiche igienico sanitarie con cui abbiamo imparato a convivere.

«Essere riusciti a studiare più in dettaglio l’andamento e la correlazione delle prime due ondate di questa pandemia è sicuramente un valore aggiunto dal punto di vista di sanità pubblica – ha commentato Tommaso Filippini, altro autore della ricerca – Infatti, una maggiore comprensione delle dinamiche epidemiche, assieme allo studio di altri determinanti come i fattori ambientali e meteoclimatici e le caratteristiche della popolazione colpita, potranno permettere, in un’ottica predittiva, di avere una maggiore consapevolezza su quello che ci potremo attendere riguardo l’andamento di future epidemie su scala globale. Ciò anche al fine di organizzare la risposta dei servizi sanitari in modo più rapido ed efficiente nel tentativo di minimizzare gli effetti negativi nella popolazione, specialmente per le categorie più fragili come anziani e portatori di patologie croniche».


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