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Che la sanità del Mezzogiorno sia ad un livello più scadente di quanto non sia quella del Centro e del Nord del Paese è un assunto del quale tutti sono convinti. Ricorderete quando si diceva “ speriamo che il virus del COVID-19 non arrivi nel Sud se no sarà un’ecatombe”. Ed i dati ci confermano che non è stata una passeggiata.

Anche se poi si operava in modo che il contagio si diffondesse in tutto il Paese, con annunci di chiusure lombarde che facevano fuggire, come topi quando la nave affonda, con l’assalto ai treni, tutti i poveri ragazzi meridionali, per un qualunque motivo al Nord, che temevano di rimanere bloccati, chiusi fuori di casa.Vanificando la chiusura delle aree e costituendo anzi una soluzione impazzita, che diffondeva la pandemia in tutto il Paese.

Metodo subdolo per salvare la sanità di alcune aree, in quel momento in grande affanno per l’esaurimento delle terapie intensive.

E come era prevedibile il virus è arrivato e ha messo in evidenza tutte le carenze di un sistema sanitario che ha difficoltà a reggere problematiche complesse e aggiuntive rispetto ai servizi di routine.

Malgrado le tante professionalità che lavorano nella sanità meridionale, spesso trascurate dai media nazionali, compresa la Rai che sembra diventata il megafono del Nord e qualche volta del Centro, il sistema complessivo, pur se migliorato notevolmente negli ultimi anni, non riesce a raggiungere i livelli che si hanno in altre parti del Paese, soprattutto del Nord.

Peraltro il sistema che ha adottato il Governo della sostituzione dei poteri, laddove essi non riescono a raggiungere gli obiettivi prefissi, è risultato assolutamente inadeguato. L’esempio della Calabria è illuminante. Da 10 anni la sanità calabrese è commissariata. Ma essa continua ad essere in una crisi permanente. Ci si chiede se è il sistema del commissariamento che non funziona o se è il modo in cui esso è stato portato a compimento, che adotta metodi peggiori di gestione di quelli che si adottavano e che aveva portato alla sostituzione dei poteri.

In realtà in Calabria il metodo del commissariamento scelto ha rappresentato un sistema di potere peggiore di quello che si voleva combattere. I commissari scelti sono stati individuati tra politici, magari non eletti, ma molto vicini ai partiti, che li hanno accontentati con questi posti di sotto governo trasferendoli, si fa per dire perché la loro più che una presenza era una assenza, magari da realtà lontane come l’Emilia-Romagna e facendo pagare alcune volte trasferte incredibili che servivano per arrivare per qualche giorno della settimana al posto di lavoro dell’amministrazione commissariata.

Ovviamente i problemi della sanità della Calabria non sono solo rimasti gli stessi ma forse sono anche peggiorati, mettendo in discussione il sistema del commissariamento, che invece a me pare un ottimo modello, che peraltro mette fuori la classe dominante locale estrattiva dalla gestione di un potere enorme. Certo ciò è valido se non si sostituisce il potere calabro con quello emiliano romagnolo e l’obiettivo del commissario non rimane quello precedente cioè di portare voti invece che alla destra alla sinistra.

In tal caso è chiaro che il commissariamento non funziona, perché non ha come obiettivo il bene comune ma la campagna elettorale successiva del partito nominante.

Ma insieme a commissari, scelti per raggiungere i veri obiettivi e non quelli del consenso, probabilmente, il tema di fondo è quello delle risorse oltre che del buon utilizzo di esse.

Perché se è vero che vi sono casi di mala sanità per cui è necessario introdurre la spesa standard per evitare che la stessa siringa possa essere pagata una cifra diversa a seconda di quale ospedale la compri, e anche vero che bisogna fare in modo che la spesa complessiva da destinare ai territori derivi da una semplice divisione: importo complessivo della spesa sanitaria nazionale diviso il numero di utenti che devono avere il servizio. Certo questo è un criterio di massima che non può assolutamente costituire una gabbia troppo rigida, in alcune regioni vi sono più persone anziane per esempio, ma nemmeno è pensabile che la spesa pro capite possa essere di tre volte superiore in un posto del Nord rispetto ad un altro del Sud, come oggi avviene.

Capisco che lasciare la sanità del Sud in condizioni precarie, ed alcune volte di estrema fragilità che porta a casi di malasanità, può essere anche strategicamente interessante per alcune regioni.

Conosciamo i dati dei rimborsi che alcune regioni del Sud effettuano a quelle del Nord,per quello che é definito turismo sanitario. Flussi di denaro che verrebbero meno se anche la sanità al Sud funzionasse adeguatamente.

Conosciamo la scelta della Lombardia di puntare alla sanità privata, con centri di eccellenza riconosciuti in tutto il mondo, ma con una sanità di base pubblica che ha mostrato tutti i suoi limiti proprio in questa pandemia. Conosciamo gli affari colossali sulla sanità che hanno portato in galera il presidente della Regione Formigoni per reati collegati.

In tale contesto nulla di strano che la scelta di lasciare la sanità del Sud nelle condizioni in cui è, con un sottile gioco di diminuzione di risorse, potrebbe far parte di una strategia complessa, forse anche involontaria, ma conducente rispetto agli interessi in campo. Per questo non si possono accettare nemmeno i livelli essenziali di prestazioni ma bisogna pretendere una spesa pro capite analoga per tutti i cittadini del Bel Paese. D’altra parte mi pare il minimo sindacale: se nessuno mette in discussione che ognuno debba pagare in base al proprio reddito in modo progressivo, mettere invece in discussione i servizi che ad ogni cittadino si danno, come è per ora, per cui nascere a Reggio Calabria significa essere italiani dannati e nascere a Reggio Emilia significa essere italiani santificati, costituisce la base per la spaccatura prima o poi del nostro Paese.


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