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L’Italia cade a pezzi, da Nord a Sud. La scarsa manutenzione delle infrastrutture, tornata in evidenza dopo gli episodi di maltempo, e la mancanza di infrastrutture degne di un Paese civile, rendono l’Italia vulnerabile e i cittadini indifesi. Anche ieri il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha insistito sulla necessità di «accelerare l’apertura dei cantieri per contrastare il dissesto idrogeologico» e il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, ha denunciato il malfunzionamento delle attività di manutenzione. Poi, però, le risorse a disposizione per gli investimenti restano spesso nel cassetto. E rimanendo lì si offre sul piatto d’argento la possibilità di tagliarle per esigenze di finanza pubblica o per dirottarle ad altri scopi.

LA BUROCRAZIA

Dei circa 64 miliardi del Fondo sviluppo e coesione relativi alla programmazione 2014-2020 (risorse nazionali da utilizzare per investimenti al Sud e nelle aree disagiate) al piano operativo infrastrutture sono stati destinati 17 miliardi. A oggi non ne è stato speso nessuno: i dati aggiornati sull’uso del Fondo sono stati illustrati all’ultimo Cipe. Un vero paradosso da cui sembra difficile uscire.

Boccia ha spiegato che l’episodio dell’altro giorno, con il crollo del viadotto in Liguria «è l’ennesima conferma che le manutenzioni non sono all’altezza degli investimenti fatti nel passato remoto, quando lo Stato metteva risorse e ci metteva la faccia». Secondo il ministro «qualcosa non funziona nelle manutenzioni e nelle responsabilità che i concessionari hanno», oltre al fatto che sarebbe opportuna «una riflessione seria sul consumo del suolo e sulle sue conseguenze».

Già, uno dei problemi che oggi bloccano la realizzazione delle opere pubbliche è proprio la mancanza di qualcuno che ci metta la faccia, che si assuma le responsabilità. Oppure queste sono spalmate su una miriade di soggetti, a livello centrale e a livello locale, che poi fanno lo scaricabarile quando le procedure si sbloccano.

Di fronte a una burocrazia straripante, regole nazionali e regole europee che devono essere rispettate, i pubblici dipendenti fanno fatica a orientarsi, anche perché non viene loro offerta la possibilità di corsi di aggiornamento professionale. In tempi di vacche magre quelle per la formazione sono state le prime spese a essere state tagliate.

L’ESODO

E a breve gli uffici pubblici saranno ancora di più sguarniti di profili professionali adeguati. Al Sud, infatti, nei prossimi 10 anni andrà in pensione il 65 per cento dei dipendenti degli enti.
In particolare, secondo i dati del conto annuale della Ragioneria generale dello Stato, i dipendenti degli enti locali e delle Regioni (escluso il settore della sanità) del Sud sono passati dai 189.000 del 2007 ai 167.000 del 2017. Di essi almeno 100.000 hanno più di 55 anni e tra 10 anni andranno in pensione per raggiunti limiti di età. O magari decideranno di accelerare con quota 100. E al Sud le Regioni, le Province e i Comuni non stanno mettendo in campo concorsi pubblici per reclutamento di personale.

IL FATTORE PAURA

C’è un altro fattore che sta bloccando investimenti e opere pubbliche. Burocrazia chiama burocrazia, spesso “difensiva”. Nel marasma di procedure e regolamenti da rispettare, dirigenti e funzionari pubblici sentono la spada di Damocle dei processi penali per abuso d’ufficio e scatta la paura di decidere. Si chiedono pareri all’Anac e ad altre istituzioni, rallentando inevitabilmente i tempi. Insomma, meglio non far nulla e vivacchiare piuttosto che rischiare sanzioni perché qualche cavillo, magari non conosciuto, non viene rispettato.


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