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«Finora gli stati membri hanno guardato all’Europa come al bancomat di una banca che però non desiderano finanziare».

Di rientro da Palermo, dove ha partecipato alla 47ª assemblea generale della Conferenza delle regioni marittime periferiche di cui è vice presidente con delega alla politica di coesione, Enrico Rossi, presidente della Toscana, legge con crescente preoccupazione i risultati del Consiglio europeo della scorsa settimana.

Alla guida della Toscana dal 2010 e da quell’anno membro del Comitato delle Regioni, Rossi è stato recentemente eletto vice presidente del gruppo socialista, responsabile per i rapporti con il Pse. Proprio dalle città e dalle regioni europee il presidente si aspetta un maggiore slancio politico verso l’integrazione comunitaria.

«Credo che regioni e città dovrebbero guardare all’Europa come al luogo di elaborazione di una cornice e una strategia politica a cui rapportarsi, non solo nell’utilizzo delle risorse europee, ma anche nell’utilizzo delle proprie. Il vecchio programma stabiliva 7 obiettivi strategici, il nuovo 5. Dovrebbero diventare misurabili per valutare oggettivamente cosa producono questi programmi, altrimenti l’Europa resta una chiacchiera. Come Regione Toscana abbiamo raccolto la sfida di misurare la distanza tra obiettivi e risultati raggiunti. Un metodo che consiglierei caldamente anche agli Stati nazionali, per meglio calare nelle realtà gli obiettivi: mobilità, sostenibilità ambientale, abbandono scolastico, lotta alle povertà e disuguaglianze, incremento dell’occupazione, solo per citare gli esempi più eclatanti. I risultati ottenuti nell’adozione di politiche specifiche in questi settori devono essere costanti e portati all’attenzione dell’opinione pubblica».

La fase di transizione tra la passata e la nuova legislatura sembra particolarmente problematica. La Commissione Juncker esce a mani vuote, quella nuova non sappiamo ancora quando si insedierà. Il Consiglio la settimana scorsa ha certificato il proprio immobilismo.

Le vecchie fratture tra i Paesi membri su bilancio, allargamento e politica estera, si riproporranno tali e quali?

«Lettura preoccupante, proprio perché corretta. La prima cosa è che anche questa volta rischiamo di avere un lungo periodo di inazione. Il settennato, probabilmente, comincerà ad erogare le risorse in ritardo rispetto al previsto. Paradossale per un’Unione europea così attenta ai tempi e al bollettino della spesa che rischia di lasciare i territori senza risorse proprio in un momento di pericolosa stagnazione economica».

Anche il nodo della quantità di risorse disponibili è tutto da sbrogliare.

«Questo è un tema che ci chiama in causa direttamente. La proposta della Commissione uscente mira a tagliare i fondi della politica agricola e trasferirne la gestione dalle Regioni agli Stati. Sulla coesione, invece, prendiamo atto che in Consiglio i finlandesi hanno proposto lo stesso schema di finanziamento precedente e la gestione regionale. Su tutto questo però domina incertezza. Ci giunge voce che alcuni Stati vogliono diminuire il bilancio europeo dal 1,02 all’1 per cento del reddito nazionale lordo».

In particolare sono Austria, Danimarca, Germania, Paesi Bassi e Svezia a chiedere una contrazione della spesa per l’Europa. Il che, con l’incipiente uscita del Regno Unito, crea non pochi problemi di bilancio.

«La proposta della Commissione europea sul budget era già un compromesso. Anche alla luce della Brexit, ridurre ancora il contributo degli stati membri al bilancio Ue avrebbe una ripercussione forte sui fondi di coesione. Essi non solo rischiano una riduzione, ma anche di essere usati per finanziare le risorse strutturali degli Stati Membri o altre iniziative come il Just Transition Fund».

Forse questi Paesi stanno mettendo in discussione il pilastro della coesione. Del resto tre anni fa esatti, la commissaria Corina Crețu rimarcava come «molti miliardi sono stati assegnati all’Italia del Sud e ancora non ne vediamo i risultati».

«Il pilastro della coesione nasce con due scopi: compensare gli squilibri del mercato e i ritardi territoriali. Innanzi tutto risulta che del settennato precedente l’Italia abbia speso la maggior parte delle risorse. Prima di dare un giudizio su quanto e su come sia stato speso dalle Regioni, bisogna attendere la fine del programma che è cominciato in ritardo, lo ricordo, non per colpa delle Regioni, bensì per i tempi di approvazione del bilancio».

Però, come spiega che nel Mezzogiorno italiano dopo 30 anni di finanziamenti il Pil pro capite rimanga al di sotto del 75 per cento della media europea?

«Sugli effetti bisogna ragionare. Ci sono stati passi avanti soprattutto da parte dell’ex ministro Claudio De Vincenti che si assunse la responsabilità di indirizzare i fondi europei su obiettivi strategici forti, evitando la dispersione delle risorse. D’altro canto, però, non dimentichiamo che le regioni del sud sono state depauperate di gran parte delle risorse statali. Fu Tremonti, dal 2010, a finanziare la cassa integrazione delle imprese in crisi del nord con i fondi destinati alle regioni del sud. Una politica purtroppo proseguita anche con i governi di centrosinistra. Di fatto, veniamo da un decennio in cui gli stanziamenti per il Mezzogiorno si sono ridotti all’osso e i finanziamenti europei sono diventati sostitutivi e non aggiuntivi, quindi hanno perso la loro forza di leva per lo sviluppo economico».

Cosa può fare il Comitato delle Regioni, che rimane un organo consultivo?

«Il CoR può esercitare un peso nei confronti del Parlamento. Allo stato attuale, nel budget votato dal Parlamento, non c’è un arretramento in termini finanziari della politica di coesione e dei fondi strutturali, anzi è importante a mio parere l’attenzione che è stata data alle aree interne a cui verrà potrebbe essere destinata una quota dei finanziamenti. Parallelamente, trovo interessante il modo in cui sta ragionando il ministro Francesco Boccia. Le aree interne, per i noti problemi di accessibilità, spopolamento e mancanza di investimenti, possono essere definite come “isole senza mare”. Noi chiediamo poi, e su questo dovremmo battere i piedi, lo scorporo del cofinanziamento regionale e statale dal patto di stabilità e quindi possibilità di incrementare gli investimenti. In parte esso fu ottenuto dal governo Letta, ma mi auguro che nella trattativa il governo italiano metta questo tema al primo punto».

La partita sul bilancio pluriennale è tutt’altro che chiusa. Pare se ne riparlerà non prima di sei mesi.

«C’è un atteggiamento contradditorio, soprattutto da parte degli stati membri, che innesca un meccanismo perverso. Da un lato negano le risorse per finanziare le politiche europee e dall’altro attribuiscono all’Europa la responsabilità di non riuscire a migliorare la vita dei cittadini. Questa situazione è uno dei fondamenti del populismo e del sovranismo che sperimentiamo trasversalmente in tutti i Paesi, se pur con accenti diversi. Avremmo bisogno, invece, di una spinta più dinamica».

Con quali risorse?

«Se vogliamo aggiungere alla coesione, la sicurezza e la difesa, l’immigrazione e poi la Just Transition, bisogna che l’Europa trovi i finanziamenti che ora sono tutti negli stati nazionali. L’Europa deve avere entrate proprie. L’Europa, come ha dimostrato il discorso carico di prospettive della presidente eletta della Commissione, Ursula Von Der Leyen, suscita spesso molte speranze e fa ampie promesse, molte delle quali, purtroppo rimangono deluse».

L’ultima in ordine di tempo riguarda il mancato avvio dei negoziati per l’allargamento a Nord Macedonia e Albania, due Paesi che hanno fatto tutto quanto richiesto dall’Unione per cominciare il percorso di adesione.

«Dopo 20 anni e con un impegno preso a includere nell’Ue i Balcani, il risultato principale del Consiglio europeo della settimana scorsa è una perdita netta di credibilità non solo dell’Europa come istituzione, ma anche dei Paesi aderenti. Senza nasconderci che le resistenze di alcuni all’allargamento trovano fondamento esclusivamente in ragioni di politica interna. Di fondo sembra manchi il coraggio di spiegare ai cittadini la cosa più semplice: pensiamo di confrontarci con stati-continente come Russia, Usa, Cina, India nella dimensione di piccolo stato nazionale?».

Un coraggio che sembra più nelle corde delle città che delle forze politiche. Sulla Brexit l’unico a chiedere esplicitamente un secondo referendum è stato il sindaco di Londra, Sadiq Khan, non il partito laburista.

«Sì, anche se ho un rammarico. Che quando Londra è scesa in piazza per chiedere un secondo voto, non siano scese in piazza contemporaneamente Madrid, Milano, Parigi, Berlino. Avrebbe avuto molta più forza. C’è troppa timidezza da parte delle regioni e delle città. E’ pur vero che sono le città e le regioni a dare una spinta innovativa, tuttavia registro un eccesso di realismo che rischia di confondere tutti in questo clima grigio e opaco».

Grigio e opaco, sarà questo il futuro dell’Europa?

«Giuliano Amato ha affermato che l’Europa è andata avanti finché la tutta classe dirigente, non solo politica, aveva memoria della guerra. Ora che quella memoria si è allontanata, arranchiamo. Però credo che quella classe dirigente possa essere sostituita da una generazione per cui la dimensione europea è naturale. Il che costituisce la mescolanza vera delle genti europee. E’ un processo in corso ed è una base materiale importante per la tenuta dell’Europa stessa. Inoltre trovo incoraggiante il fatto che l’Europa non si fermi. A dispetto di tutte le lentezze, dei ritardi e dei risultati che giudichiamo spesso insufficienti, vanno rimarcati i processi unitari che si esprimono anche in Parlamento tra le forze politiche».

Le spinte a frenare rimangono forti.

«Qualche vincolo esterno alla fine ci costringerà ad accelerare. Quando lo stile di vita degli europei sarà minacciato dall’esterno, allora saremo costretti a difenderci. Ci sono temi del resto che non possono sfuggire alla politica e hanno come minimo una dimensione europea. Come la tutela del pianeta».


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