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Tra le tante parole spese in questi giorni sull’ex Ilva, emerge una verità difficilmente confutabile: le radici del problema affondano in tempi lontani. Bisogna risalire al 1982 per trovare la prima condanna all’allora Italsider per diffusione di polveri sottili.

Fu per il maestoso polo siderurgico pugliese l’incipit di un irto percorso costellato di tappe nelle aule giudiziarie. Snodo cruciale nel 2012, con il doppio sequestro dei giudici e i conseguenti interventi legislativi per garantire la continuità produttiva dello stabilimento. Ora, prossimi al 2020, i fumi densi e le polveri che fuoriescono dall’acciaieria sembrano soffocare non solo cielo e polmoni, ma anche il futuro dell’acciaieria stessa e di circa 15mila lavoratori.

Non esita a definire questo scenario «una calamità sociale che si aggiunge a quella ambientale» monsignor. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto. Il quale, intervistato dal Quotidiano del Sud, accusa: «Per anni la città, con i suoi disagi, è stata vittima del disinteresse politico, almeno fin quando non è scoppiato il caso nel 2012 a seguito dell’intervento della magistratura».

Eccellenza, quell’intervento, tuttavia, non è stato risolutivo…
«Eh già, perché si sono succeduti una serie di decreti da parte del governo per permettere la facoltà d’uso dello stabilimento».

L’alternativa qual era? Chiudere la più grande acciaieria d’Europa, fiore all’occhiello industriale del nostro Meridione?
«No, era l’avvio di una seria diversificazione di investimenti; penso all’agricoltura, allo sfruttamento delle ricchezze del mare, al terziario, all’artigianato, al turismo. Si è sempre pensato che l’unico sbocco lavorativo di Taranto dovesse essere la grande industria, così nessuno si è mai impegnato a investire su altri campi. Se invece qualcuno avesse avuto la lungimiranza di farlo, non dico 5mila operai, ma almeno 2.500 di loro sarebbero potuti essere ricollocati in altri settori. Nel frattempo, si sarebbero potuti creare cicli produttivi non legati solo al carbone, ma anche al gas e ad energie alternative».

Si è ancora in tempo per imboccare questa strada?
«A mio avviso sì. Confidiamo nel primo ministro Conte, è un segno positivo la sua visita in città. È ora di pensare non soltanto alla salvezza dell’Ilva, ma alla salvezza di Taranto nella sua interezza».

Ritiene quindi realistico coniugare salute e lavoro
«Ci offre un assist a tal proposito Papa Francesco nella “Laudato Si’”, dove scrive che quella sociale e ambientale è un’unica crisi dovuta a un sistema economico che mette il profitto al centro. Non solo Taranto, ma tutto il Sud può rilanciarsi attraverso la diversificazione di investimenti di cui parlavo prima, sfruttando le risorse dei nostri giovani laureati che in gran parte sono costretti a emigrare per trovare lavoro».

Che idea si è fatto della disputa con Arcelor Mittal?
«Non è serio cambiare le carte in tavola. Lo scudo penale faceva parte degli accordi iniziali con gli investitori, dunque andava mantenuto. Ora, se si vuole riaprire un dialogo con loro, bisogna necessariamente ripartire dalla garanzia legale».

Se dovesse saltare il tavolo, come valuterebbe un commissariamento dello Stato?
«Sarei favorevole, ma solo se fosse una soluzione temporanea, in attesa che si crei una cordata più grande, magari in gran parte italiana, che possa rilanciare l’ex Ilva creando nuovi cicli produttivi. Contemporaneamente, lo Stato dovrebbe assolvere il compito di investire in modo serio su altri settori nel nostro territorio».

Quale messaggio rivolge ai tarantini in queste ore così difficili per loro?
«Il mio invito è a battersi per il bene delle persone, sia delle vittime dell’inquinamento sia di chi rischia il posto di lavoro. Indispensabile in tal senso – come abbiamo chiesto nell’intenzione di preghiera recitata in tutte le chiese della diocesi domenica scorsa – coinvolgere lavoratori, sindacato, azienda e autorità locali e nazionali per favorire uno sviluppo economico e sociale a servizio della salute, dell’ambiente e del lavoro».


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