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Enrico Montesano

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Non è vera satira quella che smussa le lame taglienti del dileggio al potere. La pensa così Enrico Montesano, icona del teatro e del cinema. Grandi doti da imitatore, si forma nei cabaret romani prima di alternarsi per anni tra palcoscenico e schermo.

Da Rugantino a Er Pomata di Febbre da cavallo passando per Il Conte Tacchia e Glauco Sperandio de I due carabinieri, i suoi personaggi gli hanno dato grande popolarità nazionale. E oggi intrattiene anche attraverso il web.

Da quando è iniziata la pandemia, infatti, hanno attirato successo e pure qualche critica i suoi video, pubblicati su Youtube e su una sua pagina Facebook, nei quali leva una voce controcorrente, tra satira e letteratura, rispetto alla narrazione sul Covid.

Del resto, come spiega in questa intervista per il Quotidiano del Sud, non ama particolarmente – per usare un eufemismo – ciò che definisce «il pensiero unico e l’ipocrisia del politicamente corretto».

Di interviste se ne intende. Negli ultimi mesi ne sta facendo diverse al personaggio che ha creato, Femo Blas. Com’è nata l’idea?

«È nata dal desiderio irrefrenabile di essere Blas-Femo, irriverente verso il perbenismo dominante, il conforme e l’omologato. Volevo contrastare il pensiero unico e  l’ipocrisia del politicamente corretto».  

Queste posizioni politicamente scorrette le hanno attirato critiche; qualcuno le ha dato del “negazionista”, altri hanno affermato che di pandemia devono parlarne solo i medici. Cosa risponde?

«Ah già, sì. È vero! Come di calcio dovrebbero parlarne solo i calciatori e gli allenatori, di cucina solo gli chef diplomati, di moda solo gli stilisti, di automobili solo ingegneri e piloti, di donne o uomini solo chi se ne intende, di politica solo i politici di spessore, quindi metà governo e quasi tutto il parlamento dovrebbero tacere. E di conseguenza di virus non dovevano parlarne neanche i medici perché di virus non capiscono un tubo. Di concerto dovrebbero tacere anche gli “opinionisti del menga”, che debordano nelle tv, nonché i giornalisti, che scrivono su tutto. Insomma quelli che hanno affermato che gli attori non possono parlare di argomenti diversi dalla loro professione dovrebbero essere i primi a tacere. Muti come pesci dovrebbero stare. Un corale silenzio sarebbe più onesto e auspicabile».

Comunque i suoi video stanno raccogliendo grande successo. Lo spettacolo dell’era post-Covid passa attraverso il web o c’è speranza per cinema e teatri? 

«Nessuna speranza per cinema e teatri. È stato assestato un colpo mortale. Chissà se ci riprenderemo, non so come e quando. In pochi mesi hanno distrutto una secolare e civilissima usanza giunta a noi sin dall’antica Grecia; questo meraviglioso rito collettivo, aggregante, si rinnovava ogni sera. Ora non s’ha da fare – hanno deciso – c’è il virus: salviamo la salute fisica e uccidiamo quella mentale e spirituale. I cervelloni delle super-commissioni non sono riusciti a salvare salute e cultura (stavo per dire capre e cavoli, ma le capre sono loro, quindi meglio evitare). E poi della cultura se ne fregano. Non lo ritengono un prodotto essenziale. Nel teatro, sin dai tempi dei greci, si fa satira, si critica il tiranno. No, No. Non va bene. Il Grande Reset non contempla questo, prevede forme alternative meno disturbanti e meno aggreganti. La gente, se sta insieme, parla, si scambia opinioni, è pericolosa. Meglio se sta a casa davanti a smartphone e tv».

A proposito di teatro, tra pochi giorni saranno i 40 anni dal debutto al Sistina della commedia “Bravo!”. Che ricordi conserva di quella esperienza che le valse dei riconoscimenti? 

«Mitico “Bravo!”. Tre stagioni di esauriti, da Roma a Milano e a Torino, Bologna, Catania, Napoli. I teatri pieni, che spettacolo! Un ricordo meraviglioso. “Bravo!” era una commedia musicale innovativa, rompeva gli schemi delle vecchie gloriose commedie musicali di Garinei e Giovannini e non aveva nulla da invidiare ai cosiddetti musical americani. È da vedere! È tutto registrato: Raiuno, quando la Rai aiutava il teatro».

Qualche mese fa ha detto che lei e Proietti siete sempre stati amici. Dunque può nascere un’amicizia tra artisti considerati dalla critica in competizione?

«Grande rispetto e stima reciproca con Gigi, straordinario attore, dalla tecnica eccezionale. Peccato che ci siamo incontrati solo una volta… e mezza. Comunque ognuno di noi poi ha fatto la sua carriera, però quell’unico incontro professionale in Febbre da cavallo, rimarrà nella storia del cinema».

Lei è considerato uno degli ultimi interpreti della grande comicità romanesca. Ritiene che questo filone continuerà ad avere successo in futuro?

«Bontà vostra, sono lusingato e pure spaventato. Perché me volete da’ ‘sta responsabilità? Diciamo che della vecchia guardia… bè, sì. I miei maestri sono stati Fabrizi, Manfredi, Sordi, però quanto hanno pesato anche Petrolini, Rascel, Checco Durante. E poi il mio padre cinematografico Paolo Panelli e tutta quella schiera di oscuri maestri che sono stati i comici romani dell’avanspettacolo che conobbi negli spettacoli dei miei esordi».

Sta lavorando a qualche progetto artistico?

«Sempre il cervello lavora. I progetti ci sono, le idee pure, i soldi quasi non servono, so’ i teatri che mancano. Cine e tv sono affollati. Insomma manca lo spazio… Dice “fallo in streaming”; Panelli avrebbe risposto: “In streaming fallo fa’ a tu’ sorella!”».

Lei è stato anche eurodeputato. Oggi tornerebbe a fare politica?

«E perché?».


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