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Roberto Rosso

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Così come l’imperatore romano Didio Giuliano comprò all’asta dai pretoriani la sua carica, Roberto Rosso, assessore, fino a ieri, ai Diritti civili della Regione Piemonte, ma anche capogruppo in consiglio a Torino e vicesindaco di Trino Vercellese, sarebbe andato alla ricerca, “in plurime direzioni, di occasioni di acquisto in stock del consenso democratico”: la metafora è del gip distrettuale di Torino Giulio Corato che, in accoglimento delle richieste dei pm Antimafia del capoluogo piemontese, ha disposto l’arresto dell’esponente di FdI per voto di scambio con la ‘ndrangheta.

COINVOLTO ANCHE BURLÒ

In tutto otto le persone arrestate nell’ambito dell’inchiesta della Dda torinese che ha fatto luce sulle infiltrazioni in Piemonte di un’articolazione della cosca Bonavota di S. Onofrio, nel Vibonese, e tra loro anche Mario Burlò, vicepresidente nazionale dell’associazione Piccole e medie imprese, che raccoglie 200mila imprenditori italiani, e sponsor della Basket Torino. I tentacoli sono sulla politica e sull’economia: contestualmente sono stati accertati reati fiscali per 16 milioni e sequestrati dalla Guardia di finanza di Torino 200 beni, tra imprese, immobili e conti correnti; i sigilli sono scattati oltre che in Piemonte, anche in Lombardia, Toscana, Lazio, Campania, Sicilia e Sardegna.

SCOSSONE POLITICO

L’arresto di Rosso, però, è il fatto più eclatante e destinato a produrre un nuovo scossone politico nel Nord sempre più inquinato dalla presenza di una ‘ndrangheta pervasiva e affaristica. Il politico dimessosi in carcere da assessore regionale è stato firmatario nel Parlamento repubblicano – dove è stato eletto per ben cinque legislature nella fila di FI prima che approdasse alla corte della Meloni – di un’interpellanza riguardante tra gli altri il coindagato Onofrio Garcea, nato a Pizzo, nel Vibonese, ma residente a Genova e ritenuto il referente in Liguria e Piemonte del clan; interpellanza relativa all’ipotesi di un suo coinvolgimento in gravi dinamiche di criminalità organizzata, con annessi proprio presunti voti di scambio.
E’ lo stesso Rosso, ma in questo caso sarebbe il caso di scomodare Giano bifronte, che ricompare poi in fotografia ad accogliere nel proprio ufficio elettorale, con larghi sorrisi, il duo composto dallo stesso Garcea e Francesco Viterbo, anche lui presunto affiliato alla cosca, in vista della consultazione regionale del maggio scorso. Mediatori l’imprenditrice Enza Colavito per Rosso e Carlo De Bellis quale tramite del clan, Viterbo e Garcea avrebbero promesso di procurare pacchetti di voti al politico in cambio di 15.000 euro, somma in parte erogata prima delle consultazioni elettorali (2.900 euro), in parte successivamente, il 17 giugno, previa trattativa che si sarebbe conclusa con la dazione di 5.000 euro a saldo. “Cinque e bon, tagliamo la testa al toro”. “Cinque, e tre caramelle le han già prese”.

L’INCONTRO IN PIAZZA SAN CARLO

Siamo in piazza San Carlo, e non in una zona impervia del Vibonese. Ma De Bellis risponde anche di concorso esterno in associazione mafiosa poiché, in particolare, avrebbe procurato commesse dal gruppo facente capo a Mario Burlò nel settore delle compravendite immobiliari, ed occasioni di profitto tramite intese tra l’imprenditore e gli esponenti dell’associazione mafiosa per la commissione di reati fiscali e tributari. Concorso esterno in associazione mafiosa è l’accusa anche per Burlò, che col sostegno di Garcea e Viterbo, organizzatori della ‘ndrangheta torinese, avrebbe attuato un sistema di evasione fiscale attraverso la creazione di più società, formalmente non riconducibili a lui ma ritenuti il tramite con cui compiere indebite compensazioni Iva per oltre 16 milioni. Ecco perché gli inquirenti gli hanno tolto ristoranti e bar nel capoluogo piemontese e una decina di appartamenti nel resort Geovillage di Olbia.
Non a caso il gip lo ritiene “al centro di un’abnorme galassia di entità societarie a lui facenti capo e che appaiono scivolare con abilità estrema tra indagini giudiziarie, accertamenti amministrativi dell’Agenzia delle Entrate e segnalazioni di operazioni sospette, il tutto al fine di sottrarre all’Erario quanto più liquidità possibile”. Elementi che denoterebbero una pericolosità fiscale in un contesto di infiltrazione mafiosa dove “sodali di diversa estrazione (sarebbero stati accertati contatti anche con esponenti della potente Stidda di Gela, ndr) appaiono in grado, da un lato, di offrire importanti e distorti contatti lavorativi e, dall’altro e successivamente, di condizionare in maniera significativa ogni scelta imprenditoriale”.

PRESTANOMI E CONSENSI

Sarebbe stato accertato che l’imprenditore torinese, peraltro con precedenti per reati contro il patrimonio sia pure oggetto di riabilitazione, avrebbe gestito, avvalendosi anche di prestanome e col ricorso a ricorrenti violazioni di carattere fiscale e tributario, “considerevoli risorse finanziarie di vrovenienza illecita, da riempiegare nella creazione di nuove società, nell’acquisto di esercizi commerciali ma, soprattutto, da utilizzare per il favoreggiamento dell’associazione mafiosa di Carmagnola”. Come? Interfacciandosi con esponenti del sodalizio criminale e favorendone l’operatività col finanziamento per mezzo di operazioni immobiliari e assunzioni di alcuni di loro.


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