X
<
>

Condividi:
5 minuti per la lettura

Non si può negare che l’economia si sia prepotentemente impadronita di ogni aspetto della relazione umana e che ciò abbia irrigidito i rapporti tra persone riducendoli sempre più frequentemente a un mero “do ut des”, nel contempo riducendo e limitando lo scambio gratuito e simbolico, cioè lo scambio fatto di parole e significati senza scopo di mercificazione. Semplificando al massimo, quasi non esiste più la possibilità di parlare con qualcuno senza avere la sensazione di dover acquistare qualcosa o di dover vendere qualcosa. Ciò ha reso l’essere umano sempre più solo e isolato. Sempre più sommerso da oggetti inutili che frantumano la consistenza più intima dell’essere. Perché l’importante è l’acquisto dell’ultimo modello. E se i conti non tornano, se le risorse finanziarie non bastano, si rateizza, indebitandosi per il futuro. Vale a dire si pensa al futuro come un debito. Così, oltretutto, i conti si complicano con le percentuali degli interessi. L’accecamento che il richiamo dell’oggetto in vendita provoca è tale che si scambia il voluttuario per una necessità estrema. Come se il non possedere quella cosa provocasse una perdita esistenziale. Quasi un danno. Ma dopo poco tempo tutto ciò non conta più.

Un’altra trappola immaginaria ci rapisce. L’immagine di un altro oggetto invade il nostro spazio. Ci divora il non avere. Ci ingoia il calcolare quanto ci costerà questa meraviglia, questa novità. Non ci preoccupa quanto durerà questo nuovo innamoramento. Anche perché presto qualcos’altro ci rapirà, oppure perché il nostro bel gingillo ha i giorni contati: si autodistruggerà non appena il conto alla rovescia della sua durata si esaurirà. Ma l’oggetto non restituisce né sostituisce la presenza di un altro che parla, che ascolta, che è lì con noi nella sua fisicità o è in un angolo del cuore con i ricordi che ci ha regalato. L’investimento nella serie numerica infinita degli oggetti è una bulimia consumistica, cui fa da contraltare l’anoressia spirituale e relazionale che come un vuoto risucchia l’uomo in una solitudine senza orizzonti. La conseguenza dell’invasione della contabilità in ogni campo e settore della vita è l’irrigidimento dei limiti dell’agire umano, da un tot a un tot, e l’evaporazione delle relazioni. Del resto i conti non possono essere elastici.

Ma la contabilità, entrata in molte, se non in tutte le vicende umane, danneggia e mortifica quell’incalcolabile, imperfetto, inafferrabile che ci rende unici. Così la creatività e l’inventiva sono messe da parte nella lotta impari tra il Soggetto da un lato e, dall’altro, i numeri, le statistiche, i protocolli e le standardizzazioni. Anche in campo clinico si è sempre più attenti al protocollo che all’individuo che si ha di fronte, come se fosse uno tra i tanti, come se fosse un numero del campione di una ricerca. Invece ogni soggetto esprime anche nel sintomo, nel disagio, nella sofferenza, la sua unicità che va presa in considerazione al fine di sostenere una soluzione, una strategia, un’invenzione che consenta la vita. In molti oggi soffrono di disturbi alimentari. Questo tipo di sofferenza dilaga e sempre più persone passano il tempo a pesare cibo e contare calorie. Si pensa sempre meno a gustare i sapori, all’amore di chi ha preparato un buon pasto, alla convivialità, al rito dello stare insieme seduti a tavola. L’assurdo è che anche chi non soffre di disturbi alimentari è in qualche modo preda dei conti. Si pesa il cibo. Si pesa il corpo. E, per mantenere un certo peso corporeo, si continua a contare. Si contano persino i passi fatti in un giorno, i gradini saliti. Si controlla una infinità di dimensioni numeriche per sentirsi a posto o scoprire tristemente di aver fallito, non rispettando la tabella.

Nell’epoca in cui inclusione è una delle parole d’ordine, in realtà siamo in una frenetica corsa a ostacoli da un limite all’altro, da una statistica a un’altra. Basta un numero che non torna per essere fuori norma, fuori peso, fuori forma. E perché no? Fuori di testa. Il fallimento dei conti, infatti, non ammette scappatoie. Ben lo sanno gli studenti alle prese con la matematica. Quando un calcolo non torna non ci si sente in trappola: si è in trappola, finché non si trova l’errore. Errore che una volta scovato si vorrebbe cancellare, ma che invece si ripete spesso nello stesso identico modo.

Che dire poi dei punteggi come limiti nella pratica sportiva. La rincorsa al record, al risultato a volte spinge al doping purtroppo anche in ambito dilettantistico e giovanile. Così, invece di imparare ad accettarsi o a impegnarsi di più, si aggira l’ostacolo, si inganna, si accorciano illegalmente le distanze dal traguardo. Al posto del confronto leale, del lavoro dell’uomo su se stesso, si preferisce la scorciatoia, soprattutto se interessi economici sopravanzano l’ideale della realizzazione personale al di là dei punti. Questa è la sfida più ardua dei nostri tempi: da un lato l’ideale, la sublimazione, la realizzazione dell’essere; dall’altro l’oggetto, la mercificazione, la consumazione. Perché accade che all’insistenza dei molteplici oggetti di consumo corrisponde l’avanzata del fronte dei disagi e del malessere, come se all’aumentare dei gadget facesse eco una sorta di progressiva desertificazione spirituale. Più cose, meno simboli, meno ideali, meno valori.

Gli oggetti stessi non rappresentano più nulla: sono usa e getta. A volte anche le persone sono scambiate per oggetti, private della loro soggettività, del loro valore, considerate solo per le quantità di profitto che producono e ridotte a meri numeri. Si può togliere valore ai numeri? Probabilmente no, ma certo la parola e la relazione possono spiegare, ammorbidire, umanizzare un risultato negativo. Così un medico può sostenere il suo paziente (che non è la cartella numero x) di fronte a freddi numeri che indicano la gravità del suo stato, della sua malattia. Un insegnante può spiegare un risultato negativo aiutando lo studente a migliorare. Un genitore può spiegare al figlio perché è più importante riparare anziché ricomprare, accettare il fallimento se ci consente di capire l’errore. E così, pur senza togliere valore ai numeri, si può togliere loro il potere di renderci schiavi.


La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.
Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  
Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.
ABBONATI AL QUOTIDIANO DEL SUD CLICCANDO QUI.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE