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LA STORIA di George Floyd è il risultato di una politica che si rivolge “alla pancia” del Paese, la parte meno nobile, ignorando gli stomaci vuoti, i cuori che pulsano, le teste che pensano. È la storia di un branco di poliziotti che ha agito compatto contro la vittima, sicuro che la propria menzogna sarebbe stata accettata quale versione ufficiale. Sarebbe emersa la verità se alcuni passanti non avessero ripreso la scena con il cellulare? Chi ci tutela da chi dovrebbe tutelarci? Quei due agenti continuavano a svolgere servizio in strada, anche se a loro carico c’era una collezione di denunce: uno ne aveva diciassette, l’altro sei. Perché non erano stati licenziati o quantomeno destinati ad altre mansioni? Non sarebbero forse meno sommarie certe indagini, certe archiviazioni, certe sentenze, se tutti, magistrati compresi, pagassero per il proprio cattivo operato?

George Floyd aveva appena comprato un pacchetto di sigarette con una banconota falsa. Fermato dalla polizia, è morto soffocato dal ginocchio di un agente, tenuto sul suo collo per otto minuti e quarantasei secondi. George Floyd era afroamericano e la sua uccisione ha scatenato un’ondata di proteste contro il razzismo dilagante in America e non solo.

Per la prima volta, guardando le immagini della manifestazione, ho avuto il sospetto che nel nostro modo di invocare giustizia ci sia un difetto, un tranello nel quale da secoli, in buona fede, cadiamo senza accorgercene: il linguaggio della protesta contiene comunque la visione di un’umanità divisa in razze; gli slogan incentrati sulle categorie contribuiscono involontariamente a farle esistere. Sarebbe più efficace protestare non perché “La vita dei neri conta” ma perché “La vita conta”, non perché “L’abuso di potere a sfondo razziale è un crimine” ma perché “L’abuso di potere è sempre un crimine”. I bianchi non sono esenti dal subire abusi di potere: basta ricordare Stefano Cucchi; basta vedere come, l’altro ieri, un anziano pacifico manifestante è stato scaraventato a terra da due agenti della squadra antisommossa e lasciato sanguinante sul marciapiede.

Proviamo a difenderci senza divisioni in categorie e forse le categorie smetteranno di esistere. Il principio vale per ogni tipo di discriminazione razziale, religiosa, di genere, sessuale, perché c’è un unico comune denominatore nel razzismo, nell’omofobia, nella transfobia, nell’abilismo (la discriminazione nei confronti dei disabili), nel femminicidio, nel bullismo: la violenza. Schieriamoci contro la violenza in generale, inclusa quella verbale, perché un clima di offese facilita le aggressioni fisiche. Il rispetto dei diritti umani va preteso in quanto umani. Non siamo alle prese con una coperta corta, che tirata da un lato ne scopre un altro. C’è spazio per tutti e tutti devono essere al riparo sotto questo immenso fazzoletto di cielo.

La storia di George Floyd è anche la storia di migliaia di figure istituzionali e di poliziotti che in questi giorni si stanno inginocchiando per commemorarlo, restituendo significato sacro al gesto con cui è stato brutalmente ucciso e dignità all’autorità che rappresentano. Da qui ci viene la speranza che non è ancora marcio tutto il raccolto: sono marce alcune mele che, se lasciate in ruoli cruciali di potere, minano la credibilità dell’intero sistema.


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