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«UNA volta un Re fece una festa e c’erano le principesse più belle del regno. Un soldato che faceva la guardia vide passare la figlia del Re. Era la più bella di tutte e se ne innamorò subito. Ma che poteva fare un povero soldato a paragone colla figlia del Re? Finalmente un giorno riuscì a incontrarla e le disse che non poteva più vivere senza di lei. La principessa fu così impressionata del suo forte sentimento che disse al soldato: “Se saprai aspettare cento giorni e cento notti sotto il mio balcone, alla fine, io sarò tua”. Subito il soldato se ne andò là e aspettò un giorno e due giorni e dieci e poi venti. E ogni sera la principessa controllava dalla finestra, ma quello non si muoveva mai: con la pioggia, con il vento, con la neve era sempre là; gli uccelli gli cacavano in testa e le api se lo mangiavano vivo, ma lui non si muoveva. Dopo novanta notti era diventato tutto secco, bianco e gli scendevano le lacrime dagli occhi e non poteva trattenerle ché non aveva più la forza manco per dormire… mentre la principessa sempre lo guardava. E arrivati alla novantanovesima notte il soldato si alzò, si prese la sedia e se ne andò via».

Nel film “Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore, il vecchio Alfredo racconta al giovane Totò questa storia. Totò non la capisce e neanche io la capivo. Perché vanificare tanto sentimento appena prima del traguardo? Se la principessa, come promesso, fosse scesa al centesimo giorno, non avrebbe trovato il soldato. Soltanto crescendo, Totò capisce. E anch’io, crescendo, ho capito. «Ho capito perché il soldato andò via proprio alla fine. Sì, bastava un’altra notte e la principessa sarebbe stata sua, ma lei poteva anche non mantenere la sua promessa e sarebbe stato terribile, sarebbe morto. Così, invece, almeno per novantanove notti era vissuto nell’illusione che lei fosse lì ad aspettarlo».

Quante volte si preferisce conservare i desideri sottovuoto, dentro la teca dell’illusione, anziché esporli alla realtà e rischiare di vederli evaporare? In questi mesi di isolamento forzato, ognuno di noi ha fatto qualche promessa ad altri o a se stesso: “Quando si potrà di nuovo uscire… Quando ci si potrà di nuovo rivedere…”. Eppure, ora che siamo tornati liberi, tendiamo a riprendere le nostre esistenze più o meno da dove le avevamo lasciate, senza trovare il coraggio di mettere in atto ciò che avevamo sperato e sognato.

Ai condannati a morte viene chiesto, di rito, qual è il loro ultimo desiderio, perché, quando il tempo sta per scadere, desiderare diventa prioritario. In fondo non siamo tutti, prima o poi, condannati a morte? Perché dunque ricacciare indietro un forte desiderio? Non è vita quella della principessa: se qualcosa o qualcuno non ci interessa, che senso ha promettere di raggiungerlo al centesimo giorno? Se invece ci interessa, come possiamo limitarci a guardare dalla finestra, senza scendere le scale di corsa?

Non è vita quella del soldato: affronta guerre di mestiere, ma fugge per paura di una delusione. Se abbiamo tenuto la nostra sedia fissa in attesa per novantanove giorni, dobbiamo trovare la forza di tenerla anche il centesimo. Chi non corre il rischio di vedere un desiderio morire, non corre nemmeno il rischio di vederlo vivere.


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