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DA BAMBINI ci avevano spiegato che esistono quattro operazioni aritmetiche: l’addizione, la sottrazione, la moltiplicazione, la divisione. Crescendo, abbiamo scoperto che ne esiste una quinta, la più bella e la più difficile: la condivisione. Tramite i social network, l’espressione “condividere” è diventata talmente di moda da essersi svuotata di senso: cliccando sull’apposito tasto, “condividi” una foto, un pensiero, una storia. Ma a volte in quella foto, in quel pensiero, in quella storia non c’è altro che l’immagine di un paio di scarpe, una tazzina di caffè o un bicchiere di vino.

Si sta davvero condividendo qualcosa? La stessa domanda dovremmo farcela anche al di fuori dei social network, per un’infinità di rapporti tenuti in piedi senza essere più in vita e forse senza esserlo mai stati. Condividere non è sinonimo di pubblicare né di palesarsi o farsi sentire senza avere nulla da dirsi e da darsi: è un verbo molto più grande, è l’unica operazione aritmetica che misteriosamente non dà mai risultato certo e calcolabile.

Puoi condividere una risata e quell’allegria si moltiplica. Puoi condividere una paura e, nel momento stesso in cui la pronunci, quella paura evapora. Puoi mettere insieme due solitudini e, anziché sommarsi, si sottraggono reciprocamente. Le condivisioni oneste sono quelle da cui tutti escono arricchiti. Il guaio è che spesso, nel mettere in comune, non riusciamo più a distinguere chi mette cosa e attribuiamo all’altro risorse e sensibilità che non ha, lasciandoci raggirare. C’è chi magari in un rapporto d’amicizia mette in comune una sola moneta, ma vera, e chi invece decine, centinaia, migliaia di monete, che si rivelano tutte false.

La matematica dei rapporti umani ha una tale variabilità che nessun premio Nobel è mai riuscito a racchiuderla in una formula, perché il risultato dipende da un fattore estremamente delicato: soltanto se si condivide in maniera sincera e autentica, il risultato sarà positivo.


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