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Cambiar pelle. Il serpente in un colpo solo ci riesce e lo fa più volte l’anno. Del tessuto che gli è appartenuto non gli resta addosso nemmeno una squama: con la testa lo strappa e, strusciandosi contro superfici ruvide, se l o sfila via completamente come ci si sfila una calza.

Da questa operazione detta “muta”, esce fuori nuovo di zecca, con la pelle lucida di un neonato, mentre a terra, inerte, resta l’involucro ormai svuotato della sua vecchia epidermide, come il fantasma di quello che era, come una vita dismessa.

La natura non concede agli esseri umani di fare la muta. Per quanto la nostra pelle possa starci stretta, non possiamo cambiarla: in noi nuove e vecchie cellule si ritrovano a convivere, mischiate. Nel nostro strato più esterno resta traccia di tutto, anche di quello che proviamo dentro: restano le macchie del sole, le rughe delle risate, le scottature da forno, le ore di mancato riposo, le traiettorie dei pensieri che hanno abitato la nostra fronte; resta il nostro odore, al di là di qualsiasi
profumo possiamo spruzzare.

Ho imparato a diffidare di quelli che cambiano pelle, di quelli che con una scrollata di spalle azzerano tutto per ricominciare da capo, intatti: appartengono alla specie dei serpenti.

Siamo libri scritti a mano e, anche quando cancelliamo, restano i segni sulle nostre pagine.

Chi rinnega il passato, avrà pure la libertà di un foglio bianco, ma non avrà mai una storia, perché la vita non è un continuo inizio, ma un libro in cui a pagina segue pagina.


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