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Illustrazione di Roberto Melis

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Erano mesi che non sentivo le sirene delle ambulanze correre per le vie del centro. Come in un film girato alla rovescia, tornano le paure e gli allarmi di quattro mesi fa. Mi ricorda il gesto di quando lavoravo all’adattamento dei dialoghi di un film alla moviola. Andavo avanti per ore adeguando le parole alle immagini e poi, per rivedere il tutto, tornavo indietro velocemente, e ricominciavo da capo. Le figure correvano alla rovescia sparendo nel passato. L’effetto oggi è quello.

Una corsa all’indietro, il senso del già visto, le riflessioni dolorose sulle nostre debolezze. Quella piccola sfera irsuta che molti davano per scomparsa, ecco che riappare caparbia, tenace, evidentemente non sazia di carne umana.

Difficilissimo decidere a quale urgenza correre dietro: la libertà della salute o la libertà di movimento, di lavoro, di svago? Ciascuno risponde a modo suo. C’è chi pensa che sia meglio rischiare affidandosi al caso pur di mantenere il lavoro e chi preferisce, nel dubbio, cessare l’attività aspettando un vaccino o la fine di questa maledetta pandemia. Ma chi invoca la libertà di movimento e di vita sociale non si rende conto che se la malattia invade in maniera ancora più diffusa le nostre vite, la gente non avrà voglia di muoversi, di andare al ristorante, di incontrarsi per strada o di frequentare i bar.

Solo alcuni luoghi sacri come la scuola e il teatro sono, secondo me andrebbero tenuti aperti, con tutte le precauzioni del caso. Perché è lì che si sviluppa la coscienza collettiva portando la gente a ragionare, anche su questo momento difficile.

Solo gli incoscienti e gli irresponsabili parlano di complotti fantasiosi e negano la presenza di una malattia gravissima che sta uccidendo migliaia di persone in tutto il mondo. Una offesa ai morti, a chi soffre sui lettini tirando su l’aria dal respiratore, ma anche gli infermieri e i medici che ogni giorno rischiano la vita.

C’è chi sostiene che il virus non c’è, che si tratta di una invenzione di chi vuole mettere a tacere il mondo intero. Alla fantasia non c’è limite. Una fantasia però pericolosa. Il virus c’è, è stato isolato e identificato, anche se non conosciamo ancora bene i suoi tempi, i suoi movimenti, le sue reazioni a lunga scadenza. Non si sa se chi l’ha preso e poi è guarito, si possa considerare immunizzato, e se sì, quanto duri questa immunità. Non si sa bene come avvenga il contagio: basta toccare una maniglia su cui ha messo mano un asintomatico? O è la vicinanza e il fiato dell’altro che compie il contagio? E quanto dura la vita del virus? È possibile che, aggrappato a un pezzo di plastica duri giorni e giorni. In questo caso saremmo veramente tutti esposti.

Comunque sono d’accordo con il presidente Mattarella: il nemico è il virus, non il governo o qualche oscura potenza che controlla e domina con mano malvagia le sorti del mondo. Inutile cercare gli untori che sarebbero fra l’altro dei masochisti perché colpirebbe anche loro e i loro affari.

Avendo letto molto sulle pandemie per il mio ultimo libro che si svolge nella Sicilia del diciottesimo secolo, posso dire che in generale durano due anni. Non dobbiamo farci illusioni. Certo oggi abbiamo molte più conoscenze mediche e molti più mezzi tecnologici, ma i virus non cambiano. Possono diventare più o meno aggressivi, ma quando passano dall’animale all’uomo tendono ad espandersi a riprodursi esponenzialmente. Un guaio da cui dobbiamo uscire con coraggio e capacità di sacrificio.

Non è il momento di litigare, di insultare, di rimproverare. Il pericolo riguarda tutti e, come ha raccontato in maniera coraggiosa e commovente il direttore della Stampa Massimo Giannini che è stato in terapia intensiva, è un brutto male che colpisce i polmoni ma anche il cuore, il fegato, i reni e può distruggere una persona in pochi giorni. Chi è forte e sano, come Giannini, quando lo prende, può uscirne bene, , ma quante persone ci sono oggi che soffrono di malattie croniche! Quanti hanno i polmoni indeboliti dal fumo, o dall’inquinamento?.

Mi viene in mente una cronaca dalla peste del 700. La gente che si ammalava veniva all’inizio portata in ospedale e curata come si poteva allora. Poi piano piano si sono ammalati tutti i medici e gli infermieri e la gente ha cominciato a essere abbandonata a se stessa. I famigliari, quando c’era un moribondo in casa, lo gettavano in mare. Si trovavano morti buttati per la strada e nessuno ci faceva più caso.

Non possiamo pensare di lasciare fare alla malattia. Che va presa di petto, con energia, e combattuta prima che porti al disastro. Il disastro consisterebbe in una sanità che non ce la fa a curare i troppi malati. Vuol dire che molti morirebbero in preda ad atroci dolori, senza potere essere curati. È questo che vogliamo?


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