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Giorgio Parisi

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Il premio Nobel per la Fisica 2021 recentemente assegnato all’italiano Giorgio Parisi riporta all’attenzione uno dei temi più affascinanti per moltissimi studiosi di ogni disciplina, quello della complessità. E se nel caso degli studi di Parisi il tema è stato declinato in particolare per “la scoperta dell’interazione tra disordini e fluttuazioni nei sistemi fisici” – come recita la motivazione ufficiale – il tema dell’individuazione e della soluzione di complessità affascina da un po’ di tempo scienziati di numerose discipline.

Come spesso accade, le cose che riguardano l’interazione e le relazioni all’interno di sistemi che comprendono non solo elementi fisici ma anche persone, collettività dalle quali emergono emozioni, valori e culture differenti e spesso antagoniste fra loro, sovente sono ancora più difficili da comprendere e “governare”.

C’è urgenza di ripensare a un modello di sviluppo. E serve usare una visione sistemica. Quante volte abbiamo sentito ripetere queste affermazioni nei discorsi sul futuro negli ultimi anni? La realtà è che la nostra attuale società, complessa al punto giusto, apre orizzonti di senso teoricamente illimitati, ai quali corrispondono un numero altrettanto illimitato di possibili scelte. Non esiste nulla che non possa essere rivisto: per dirla con Niklas Luhmann, ogni cosa che è o che facciamo è sempre possibile anche altrimenti. Oggi le cose stanno in un modo, ma domani potrebbero anche stare diversamente; è il trionfo della contingenza, una sorta di festival del cosiddetto “pensiero debole”.

Da un certo punto di vista, la ricchezza dell’approccio alla complessità del sociale sta proprio nella consapevolezza  che il nostro vissuto,  le nostre emozioni, insomma la nostra vita sono elementi assolutamente centrali nella costituzione di quella che definiamo complessità; che proprio per queste ragioni non può essere completamente gestita, misurata, controllata, né indirizzata.

In fondo, lo aveva inteso molto bene anche Herbert Simon, economista, psicologo e informatico statunitense, premio Nobel per le scienze economiche nel 1978: è suo il concetto importantissimo di razionalità limitata, a caratterizzare le peculiarità che noi umani abbiamo dal punto di vista proprio delle capacità di analisi,  elaborazione,  sistematicità,  individuazione delle correlazioni tra i fenomeni. Una capacità intrisa di limiti dovuti a una serie di fattori diversi, relativi alle informazioni che possediamo, ai limiti cognitivi della nostra mente, alla quantità finita di tempo di cui disponiamo per prendere una decisione. Tutto ciò fa sì che la complessità sociale sia una complessità che non è esprimibile nella sua totalità, nella sua completezza; con le ovvie conseguenze che questa consapevolezza presuppone.

 Questa questione assume un rilievo particolare nell’attuale società della prestazione, una società che corre investita da quella che gli specialisti della comunicazione chiamano “infodemia”.

La condizione di razionalità limitata,  così come elaborata da  Simon, diventa oggi una questione fondamentale, particolarmente significativa e per certi versi dirompente, prepotente. Il convincimento di poter contare su una straordinaria disponibilità di dati e di informazioni   ci mette in una condizione per certi versi illusoria di poter prendere fino in fondo delle decisioni, di operare delle scelte, di definire delle strategie; che dovrebbero essere appunto del tutto razionali, cioè basate sul presupposto che si possano operare scelte sulla base della disponibilità delle informazioni. Saremmo cioè teoricamente in grado di effettuare valutazioni dei rapporti costo- benefici più o meno attenti e rigorosi. Nella realtà, invece, assistiamo ad un fenomeno esattamente opposto, in una sorta di paradossale eterogenesi dei fini.

Da un lato infatti, in accezione di per sé non negativa, aumentano continuamente per gli individui le possibilità di scegliere percorsi personalizzati in ogni campo d’azione; di converso, quello che sembra essere un vero e proprio trionfo della differenza, di fatto produce un indebolimento della stessa. Se tutto è possibile anche altrimenti, allora anche la differenza diventa indifferente. Per questo, quindi, i vari sistemi sociali – dalla scienza alla politica, dai mass media all’economia – nei quali tante speranze di liberazione erano state riposte, funzionano non a caso come se l’uomo non esistesse. Viviamo cioè il paradosso di essere sempre più in balia di esigenze sociali a volte inderogabili che paiono tuttavia essere inconciliabili con le esigenze umane. E allora il crescente scollamento tra individuo e società, tra sistema sociale e logiche che presiedono l’equilibrio psichico dei singoli, la conseguente distanza aumentata fra egocentrismo e senso di comunità, più che senso di libertà sembra generare disordine, mancanza di radici, incapacità di gestire un rapporto soddisfacente con gli altri e il mondo intero. Il problema, insomma, non è semplice; ma come uscire da quello che sembra un vicolo cieco?

C’è urgenza di ripensare a un modello di sviluppo. E serve usare una visione sistemica. Così abbiamo affermato in apertura di queste considerazioni. Ora lo ribadiamo. Ma con qualche ulteriore precisazione, indispensabile. Il vicolo resterà cieco fintanto che la società sarà considerata un sottosistema dell’economia, in una visione intrisa di determinismo e soluzioni di natura tecnologica che si traducono inderogabilmente in comportamenti di natura tecnocratica.

Un corretto approccio alla complessità del problema ha invece bisogno di una visione sistemica, che abbandoni completamente l’idea di onniscienza che alberga invece nelle prospettive – erronee – di molti tentativi interpretativi (e corporativi). Serve usare  una visione sistemica, appunto. Il che significa che vanno ripensate completamente non solo le nostre istituzioni educative e formative ma anche le culture organizzative nel senso più largo del termine: proprio quelle che continuano invece a essere incardinate e  strutturate su logiche di separazione di potere e di controllo.

Viviamo oggi in un mondo nel quale le importantissime scoperte scientifiche e  le grandi innovazioni tecnologiche  cambiano evidentemente molti dei ritmi della nostra vita, e fra le altre cose anche il modo stesso di concepire ciò che è vita e ciò che non è vita. Cambiano i confini tra natura e cultura, tra naturale e artificiale, tra reale e virtuale; sono sempre più, oramai, confini sfumati. Ma uno degli errori più grossolani che si possano commettere in una situazione come questa è che   la tecnologia sia ipotizzata, considerata e presentata  come qualcosa di esterno e di neutrale.  

Spesso negli ultimi anni è stato utilizzato il convincimento che la tecnologia vada a una certa velocità,  e la cultura non riesca a starle dietro. Ma qui sta il vero problema: Il  grande equivoco è proprio l’idea che a questa civiltà ipertecnologica servano soltanto tecnici, o comunque  figure iperspecializzate.  Su questa strada si continua ad alimentare una dicotomia pericolosissima come quella che prevede rigide logiche di separazione tra formazione scientifica e  formazione umanistica. Per risolvere problemi complessi occorre una visione d’insieme, che solo una riunificazione dei saperi può fornire. Alcune indicazioni che arrivano anche dai Nobel, infatti, riconoscono esattamente il valore della transdisciplinarietà nell’affrontare problemi complessi come quelli che caratterizzano la nostra epoca.

Altrimenti, come risolvere la complessità della composizione del vetro guardando anche il volo degli uccelli?


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