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Donne in jeans di schiena

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Di recente ho comprato un jeans nuovo. È un jeans morbido, ma dalla bella linea. Un modello espressamente pensato per “esaltare le curve”, come dice l’etichetta. Non amo fare shopping e non compro spesso vestiti, ma entrare in quel jeans mi ha fatta sentire felice, a mio agio, la stessa sensazione di quando mi calo nell’acqua calda della vasca. Inutile dire che è diventato presto il mio indumento preferito.

Ora, i jeans, oltre ad avere molteplici usi pratici o psicologici, hanno anche un’altra funzione che fino a oggi tendevo a sottovalutare: ricoprono, sostengono e contengono il culo umano.

Il culo è un’appendice meravigliosa di cui la natura ci ha dotato per ammantare di bellezza una funzione naturale piuttosto disgustosa. È un tempio morbido e carnoso il cui ingresso remoto cela infiniti, oscuri misteri e che, come l’oracolo di Delfi, può dispensare gioie e dolori. Bisogna saperlo capire e interpretare.

A parte i suoi usi più profondi, il culo ha altre utili funzioni. La mia preferita è quella di essere un comodo cuscino termico, portatile, imbottito di lipidi e riscaldato da vasi sanguigni, che rende agevole la seduta su quasi tutte le superfici su cui vogliamo poggiarlo.

È una parte del corpo tra le più simpatiche. Con quella fessura che lo percorre tutto come un sorriso sornione e le chiappe che sembrano due belle guance tonde e paffute. O magre o cadenti o grandi o rientranti. Perché i culi, come le facce, sono tanti e differenti e si può preferire un culo come si preferisce una faccia.

Solo che il culo ce lo portiamo dietro senza controllo e, per quanto possiamo contorcerci davanti allo specchio, avrà sempre per noi il fascino dell’ignoto: esempio costante di come gli altri possano avere l’accesso a una visione di noi che non potremo mai avere. Il culo è per il corpo l’equivalente del punto cieco della nostra anima.
I culi a me piacciono. Non ho un particolare feticismo ma ne apprezzo uno ben fatto, di uomo o di donna, e il contemplarlo mi attiva gli stessi neuroni che si esaltano nel godimento dell’arte.

Per quanto riguarda quello che mi porto dietro, gli sono grata per una serie di ragioni. Ma non avendolo spesso sott’occhio tendo a dimenticarlo, salvo quando si fa dolorosamente sentire se lo schiaccio per ore su una sedia rigida.

Ci sono dei momenti in cui, però, sono altrettanto dolorosamente consapevole di avere un culo. Uno di questi è stato qualche tempo fa.

Sono stata fuori tutto il giorno e ho camminato a lungo da sola. Il mio culo sempre con me. Avevo messo il jeans, quello comodo ma carino, e la cosa mi faceva sentire piacevolmente fasciata ma libera nei movimenti. Ero in uno stato d’animo raro ma benvenuto di buona intesa di tutto il mio corpo.

Ora, è molto facile mandare in frantumi l’armonia e l’unità di un corpo o di una persona, quando di lei si isola una parte e si dà peso e importanza solo ad essa.

Non avendo usato da tempo jeans aderenti, mi ero dimenticata come la mera e ovvia circostanza di avere un culo, provochi in alcuni uomini pensieri e atteggiamenti irrazionali e atavici. Ho ricevuto dei commenti, del tutto gratuiti e non richiesti, sul mio culo. E all’improvviso sono stata consapevole in modo abnorme di averne uno.
Non importa fossero positivi o meno. Hanno avuto l’effetto di farmi diventare un culo che cammina. Di rompere la mia unità e armonia. Di deformarmi, schiacciando il resto di me e gonfiando come una mongolfiera una parte, utile ma limitata, del mio corpo.

Non ho mai avuto la reazione pronta, avrei voluto girarmi, tornare indietro, e gridare in faccia a quei tipi che io non sono il mio culo. Che non lo porto in giro per il loro piacere o perché sia valutato per consistenza e rotondità come fosse una cassetta di pomodori.

Ognuno ha il diritto di avere i propri gusti sull’estetica di un corpo, ma nessuno può arrogarsi quello di gettare apprezzamenti o commenti su di te per la sola ragione di avere una protuberanza di carne e vasi sanguigni in mezzo alle gambe. Il loro genere ce l’ha da millenni e quest’unica casuale circostanza li ha resi erroneamente convinti, forse da generazioni, che la cosa rendesse le donne un piacevole fodero da scegliere, valutare, stimare.

Il fatto che anche loro avessero un culo valutabile non li ha sfiorati neanche. Perché non hanno mai visto nessuno degradare un uomo a quella sola parte del corpo, mentre, ci scommetto, avranno visto molte volte una donna ridotta a mera portatrice di culo o tette. E l’avranno imitato. Sono cresciuti con questa mai intaccata convinzione che un culo femminile abbia bisogno del loro giudizio, anzi che sia lì senz’altro scopo che permettergli di valutarlo e classificarlo, non importa se lo vedranno per dieci secondi nella vita e poi mai più.

Devono avere in testa vasti schedari pieni solo di accurate valutazioni di culi femminili. E probabilmente nient’altro.

Complici le infinite e tramandate guerre di spogliatoio ingaggiate dai fautori del culo contro gli apologeti delle tette o viceversa, che fanno sembrare, in confronto, la guerra di Troia una scaramuccia durata poche ore, la maggior parte degli uomini ha preso a cuore la faccenda di trovare propri, solidi, canoni per stabilire la conformità dei vari culi (o tette) femminili a quello che è il proprio Ideale culico, l’eterno femminino – fondoschiena edition.

Il che, se compiuta con le migliori intenzioni, potrebbe anche essere una ricerca lodevole e remunerativa. Ognuno, poi, nei meandri della propria mente è libero di fare quello che più gli piace. Ma deve essere una ricerca interiore, un viaggio spirituale che ti innalza, e non uno sputo del proprio limitato e limitante senso estetico sulla pelle di un’altra persona, che accidentalmente è una donna.

Non portiamo le nostre parti del corpo in giro perché voi possiate appuntarci le vostre considerazioni. Nulla vi dà il diritto di apprezzarci o non apprezzarci solo perché ci vedete per la strada.

Questo è un discorso femminista solo perché non ho mai visto una donna gridare dietro a un uomo sconosciuto per strada che bel pacco che ha o quello che avrebbe fatto col suo culo.

Detto così sembra bellissimo. Ma, credeteci, ne soffrireste: ogni commento che ti riduce a una parte di te o all’evocazione di un atto o di una funzione è un colpo assestato a quella fragile unità che tiene insieme in un equilibrio precario corpo, coscienza, autostima, sessualità, senso di sé. Unità fragile e difficile che avete anche voi uomini, ma che nessuno vi nega, con faciloneria, con distrazione, quasi automatismo, un giorno qualsiasi, mentre portate in giro per strada tutto questo pericolante, sfaccettato, complesso, personalissimo apparato che è il vostro io.


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