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Mimmo Rotella, “La derniére Marilyn” (1966)

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“Il ricordo di mia madre alle prese con le velette, i feltri… Quei gialli e quei blu delle stoffe che spesso sono tornati nei miei quadri…”. Era il 22 febbraio del 2003, Mimmo Rotella era tornato nella casa materna per la presentazione de “La casa della memoria” in vico dell’Onda a Catanzaro. Avvolto in un paltò a quadri, l’uomo del Dècollage era estremamente emozionato. Quella casa-matrioska in un rivolo di strada, era per l’artista il luogo della memoria più struggente. «È la mia infanzia, le mie radici. La casa dove ho fatto i primi acquarelli, il luogo caro della memoria, degli affetti e il luogo da cui sono partito», disse. Per quel ritorno nella sua città natale, Rotella volle vicino anche la sua unica figlia: Aghnessa (Asya). Allora, era appena una bambinabionda e bellissima. Bastava guardarlo quell’uomo geniale in quel giorno speciale per capire che quel tornare, significava ricucire il filo spezzato con le radici: un tarlo che Rotella, cittadino del mondo, si porterà dentro per sempre.

Lui, che nello strappo dei manifesti aveva trovato il gesto dissacrante e creativo per restituire una visione del tutto nuova del quotidiano – nutrita altresì dalla lezione della Pop Art – era destinato ad essere cittadino del mondo.

Lo continua ad essere. Basta andare a Londra…

Antonella Soldaini è la direttrice del “Mimmo Rotella Institute” (MRI) con sede a Milano, nato nel 2012 per volere di Inna e Aghnessa Rotella. A lei la parola in occasione delle iniziative in corso nella capitale inglese realizzate con la Fondazione Mimmo Rotella.

Soldaini, a Londra  avete messo in cantiere – in presenza e in remoto – una serie di eventi tutti attinenti alla figura dell’artista. Qual è a suo giudizio il segno che  Rotella ha lasciato nella Storia dell’arte?

«Rotella è stato un grande sperimentatore per tutta la sua vita. Famoso per avere inventato, all’inizio degli anni Cinquanta, la tecnica del décollage, ha poi continuato ad indagare le possibilità espressive che potevano offrire altri metodi di lavoro. Operando in modo continuativo fino alla fine della sua carriera, Rotella ha attraversato molti decenni e la sua capacità di cambiare il rapporto dell’artista con la realtà che lo circonda, è stato un messaggio forte e ha lasciato un segno importante. Lo si percepisce bene anche tutt’oggi. Non a caso artisti giovani, ma che hanno già raggiunto importanti riconoscimenti internazionali, hanno pubblicamente riconosciuto il loro debito nei confronti del linguaggio artistico di Rotella: basta citare Mark Bradford, che ha rappresentato il Padiglione Americano nella Biennale di Venezia del 2018, oppure Mario García Torres. Due artisti la cui modalità espressiva deve molto alla tecnica di Rotella del décollage».

“Sentivo la necessità di rinnovarmi, di scoprire qualcosa di nuovo, ed è  venuto fuori il reportage. È già più di un anno che ho cominciato, che  ho avuto questa idea, come ho detto prima, di reintegrare la realtà, atomizzata in tanti pezzetti di carta, per mezzo del riporto fotografico” scriveva Rotella nel 1965. Parole che racchiudono il filo rosso che fa da collante a “MIMMO ROTELLA. Beyond Décollage: Photo Emulsions and Artypos, 1963-1980” ospitata alla Cardi Gallery London fino al 12 dicembre.

Rispetto alla “grammatica” creativa dell’artista,  cosa mette in risalto questa  esposizione londinese da lei curata  e realizzata  con il “Mimmo Rotella Institute”?

«Se con il décollage Rotella, pur non utilizzando i pennelli e la pittura, ha trovato un modo nuovo di fare quadri, strappando i manifesti pubblicitari dai muri della città, con le tecniche del riporto fotografico e dell’artypo, che sono quelle attentamente indagate in questa mostra, il suo atteggiamento verso il processo creativo cambia. Tra il 1963 e il 1980 si accresce il suo interesse per i processi di stampa: nascono prima i riporti fotografici – ottenuti proiettando l’immagine selezionata del manifesto su una tela emulsionata –, e poi gli artypos. Questi ultimi sono fogli utilizzati per la taratura delle macchine e scartati dalle tipografie, di cui Rotella si appropria per farne opere d’arte caratterizzate da sovrapposizioni iconografiche casuali. La mostra a Londra, la più vasta mai realizzata su queste due tecniche – sono presenti 78 lavori – dimostra come l’artista sia riuscito attraverso dei processi di riproduzione meccanica, a raccontare il suo tempo unendo la potenza delle icone del cinema e dell’immaginario popolare con la storia della pittura. Queste opere presenti alla Galleria Cardi traducono con un montaggio poliedrico la cultura emergente del consumismo del dopoguerra fino a comprendere gli eventi politici avvenuti in Italia verso la fine degli anni Settanta e tristemente noti come “gli anni di piombo”. L’appropriazione di immagini della cultura del tempo, da “La dolce vita” a Jacqueline Kennedy, dalla prima passeggiata spaziale al rapimento di Aldo Moro, unisce in queste opere l’aspetto più giocoso con quello storico e drammatico».

In uscita anche il  secondo volume del  “Catalogo Ragionato Mimmo Rotella (1962-1973)” edito Skira a cura di Germano Celant, purtroppo scomparso lo scorso aprile. Il volume è nato in collaborazione con il team scientifico dell’istituto da lei diretto. Per questo le chiedo: cosa troveremo su Rotella  di  inedito e non solo,  in questo lavoro firmato dal critico d’arte che tra  l’altro nel 1967 coniò la definizione di “Arte Povera”?

«In questo volume l’analisi e la verifica scientifica sono condotte sui lavori realizzati nel periodo tra il 1962 e il 1973, quando l’artista consolida il linguaggio del décollage nel suo aspetto più grafico e pop e transita alle ricerche legate alle tecniche di riproduzione fotomeccanica dell’immagine utilizzando il riporto fotografico e l’artypo, fino alla definizione di una prassi ancora più automatica e immediata negli effaçages e nei frottages. Attraverso un percorso cronologico il catalogo mette in luce le varie tappe evolutive che hanno caratterizzato il fare dell’artista, permettendo una lettura ampia e documentata delle opere di questo periodo. È la fase in cui Rotella prosegue con le sue sperimentazioni sui décollages, ora non più informali, ma influenzati dalle nuove icone della società di massa. I lavori realizzati agli inizi degli anni Sessanta sono esposti in occasione di importanti ricognizioni internazionali attente alle più innovative tendenze contemporanee, tra cui “New Realists” (New York, Sidney Janis Gallery, 1962) e la XXXII Biennale di Venezia del 1964. In entrambe, le opere di Rotella sono messe in relazione con quelle della Pop Art, soprattutto statunitense, che attinge da un immaginario affine a quello dell’artista italiano. Parallelamente, la lettura del volume permette di meglio capire come il suo interesse per i processi di stampa lo porterà sia verso l’esecuzione dei riporti fotografici e degli artypos, sia verso gli effaçages e frottages, risultato dell’intervento di un solvente sui ritagli di giornali e di settimanali. Lavori in cui l’artista, in linea con l’ondata libertaria e libertina del movimento sessantottesco, rivolge l’attenzione alle riviste patinate da cui ricava dettagli e frammenti, spesso caricati di un forte erotismo e dove la figura femminile diventa il soggetto principale».

A suo giudizio, cosa colpisce maggiormente il “semplice” visitatore quando va a  vedere una mostra su Rotella e ne osserva le opere?

«La capacità di Rotella di riuscire a comunicare a diversi livelli. Adottando figure di personaggi celebri come Marilyn Monroe o Sofia Loren, o di personaggi della storia – come Papa Giovanni XII o di fantasia come King Kong – oppure di prodotti di consumo, l’artista riesce a superare quell’ostacolo invisibile che di solito, le persone “non addette ai lavori”, si trovano davanti quando si devono confrontare con un’opera d’arte moderna. Questo non significa da parte sua un abbassamento del livello di qualità dei lavori ma un modo più democratico ed immediato di mettere al servizio di tutti, esperti e non, la propria pratica artistica. Non è un caso che Rotella sia riconosciuto come un grande maestro non solo dalla critica nazionale e internazionale ma sia amato e seguito anche dalle persone che poco hanno a che fare con il linguaggio dell’estetica contemporanea».


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