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Giuseppe Tomasi di Lampedusa

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Come il suo Principe di Salina, in tempi diversi ma in contesti simili, anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha assistito, nel corso della sua vita, al tramonto di un mondo che era sempre stato, fino a un certo tempo, così come l’avevano conosciuto lui e i suoi avi, eredi di una tradizione che poneva al di sopra di ogni cosa, anche dello stesso vivere individuale, il valore della Conservazione.

Come sacerdote di quella divinità, Tomasi visse molti fallimenti: vide il mondo di allora sgretolarsi sotto i colpi di due guerre mondiali, che non poterono più restituire agli uomini che le avevano vissute lo spirito del prima; subì la perdita di ciò che aveva di più caro, il palazzo di Palermo, la sua casa e insieme il santuario di quella Conservazione familiare cui era stato chiamato; assistette, infine, al fallimento del suo romanzo, più volte rifiutatogli dagli editori, nel quale aveva riposto la speranza di resurrezione di quella fiamma che illuminava tutto ciò che la sua casuale nascita di sangue e la sua naturale indole gli avevano imposto di salvare.

Due giorni prima di morire, Tomasi di Lampedusa fece ancora in tempo a ricevere la seconda lettera di rifiuto del suo manoscritto, questa volta da parte dell’Einaudi. Entrambe le lettere portavano la firma di Elio Vittorini.

Per comprendere la natura dello scontro irriducibile tra il mondo dei viventi di Vittorini e il mondo dei vinti di Tomasi, bisogna occuparsi del contesto nel quale cadeva la stesura e la proposizione del manoscritto. Era la seconda metà degli anni ‘50 del Novecento, in Italia vi era un gran fermento sotterraneo che premeva per venire a galla, mentre i conservatori di vario genere cercavano di fermare l’inevitabile cambiamento che stava per investire ogni ambito della vita italiana, sociale, culturale, politico, di costume. Vittorini era sempre stato, nella sua lunga e militante storia, un progressista, fautore del cambiamento, dell’evoluzione e soprattutto del miglioramento sociale.

Quando ecco che, quello sconosciuto antico che era Tomasi di Lampedusa, che fino ad allora aveva viaggiato in tutta Europa e osservato la storia e la vita senza lasciarsene però distrarre, aveva scelto lui proprio per porgli tra le mani il suo testo che parlava di qualcosa che Vittorini non poteva accettare: dall’alto della natura dell’uomo e della storia dei popoli, ogni cosa è immutabile e, quando sembra che muti, è per tornare in un tempo lento, lungo a volte decenni a volte secoli o millenni, allo stato originario.

Tomasi trascriveva nella storia e nella prosa eccezionali del suo testo una verità arcana: le forze eterne, immutabili, inesauste che scorrono negli uomini, scorrono sempre e comunque nel sangue di tutte le epoche, di tutti i siciliani, di tutti gli italiani, di tutti i popoli. Vittorini, nel primo rifiuto, scrisse che mancava qualcosa al romanzo. Tomasi pensò che mancasse un finale.

Mite, riflessivo, profondamente consapevole, di una sapienza antica e di una pazienza secolare, aveva ripreso su la penna e aggiunto due capitoli. Ma questo non gli valse comunque l’approvazione di Vittorini. Forse quello che Vittorini non poteva perdonare al Gattopardo era la totale assenza nel libro della considerazione del futuro, la mancanza del tempo, come se Tomasi non credesse in nessuno dei due e, al pari di una divinità vecchia e stanca, vedesse ogni cosa dall’inconclusione della sua eternità.

Hanno accusato in seguito Vittorini di aver respinto Il Gattopardo per motivi politici. Ma forse sarebbe più corretto dire che l’abbia respinto per irriducibili motivi umani. Vittorini voleva poter credere alla possibilità di cambiamento, anche se minuscolo, della condizione umana.

Mentre gli esseri umani nel Gattopardo erano visti come qualcosa di bellissimo e già perduto, come un cucciolo di cane morto sulla strada. Qualcosa di apparentemente puro ma irreparabilmente corrotto, perché destinato alla decomposizione. Anzi, già in decomposizione da millenni.

Vittorini, nelle sue lettere di rifiuto, riconobbe sempre la bellezza del libro: i luoghi polverosi e sabbiosi, gli uomini stanchi e condannati, gli arazzi e tappeti e cannocchiali che puntano sempre al cielo del Gattopardo hanno il passo incontestabile e altissimo del capolavoro. Di quegli affreschi che sono scoperti a marcire dietro una mano di intonaco e poi, portati alla luce, sono di uno splendore passato, stinto, che mozza il fiato.

Così la riconobbe Bassani che, poco dopo la morte di Tomasi, ricevette il testo incompleto da Elena Croce, figlia di Benedetto Croce, e volle fortemente e con insistenza che il libro vedesse la pubblicazione con l’editore Feltrinelli per cui lavorava, arrivando a recarsi lui stesso dalla vedova dello scrittore a prendere nelle mani il suo manoscritto originale.

Quando il libro vide finalmente la luce, anche Sciascia, come Vittorini, si ritrovò a schierarsi per un netto rifiuto di tutto ciò che il Principe di Salina andava dimostrando. Non era il testo che i due intellettuali siciliani contestavano ma il messaggio che vi leggevano e che temevano: quello dell’inutilità di qualsiasi spinta al progresso, al cambiamento e all’innovazione.

Perché, nonostante le smentite della Storia e della Natura, agli uomini che sono nel proprio tempo deve essere lasciata la debolezza di sperare di essere il sale della Terra, il desiderio di credere che i giorni passino sopra i giorni, che il tempo sia quel tempo che si butta in avanti e là rimane, che si possa fare qualcosa con questa imperfetta, mobile, corrotta, stupida, disastrosa materia umana.

Solo nel 1989, poco prima della sua morte, Sciascia ammise che “Chi, come me, avanzò allora delle riserve sui contenuti del romanzo, sull’idea che lo informava, oggi è portato a riconoscere che quello che allora parve inaccettabile e irritante nel libro, s’apparteneva a delle costanti della nostra storia che allora era legittimo ricusare o tentare di ricusare, come legittimo era per Lampedusa riconoscerle e rappresentarle”.

Il tempo aveva, per l’attimo della vita terrena di Tomasi, vinto sull’eternità. Ma l’eternità sa attendere. Tomasi di Lampedusa è diventato, dopo la morte, uno dei più noti scrittori nel mondo e le sue parole sono per sempre salvate dallo scorrere del tempo e dalla dimenticanza.


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