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Salvador Dalì, La persistenza della memoria

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Se pensiamo al concetto di tempo, difficilmente ci verrebbe in mente di associarlo ad un profumo. Un aroma, addirittura? Ma no, il tempo che scorre, che passa, attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, anno dopo anno, sembra non avere nulla a che fare con il senso dell’olfatto. Eppure… eppure qualche volta pare non funzioni così, il tempo potrebbe avere uno scorrere differente, e secondo qualcuno potrebbe anche evocare sentori e fragranze individuabili.

E descrivibili, persino. Ma quando, e perché, la percezione del tempo che scorre dovrebbe essere diversa da quella dell’usuale, tranquillo e scontato passaggio di consegne fra ieri, oggi e domani? E di cosa profumerebbe? Che fragranza avrebbe, insomma?

Sto ragionando da un po’ sul concetto di tempo, e su come questo nostro mondo stia forse correndo un po’ troppo in fretta; con il rischio di inciampare ad ogni piè sospinto, come accade a qualcuno che corre a perdifiato lungo una strada in discesa. Come, forse, è successo anche con la pandemia.

Il tempo, dunque, uno dei concetti più antichi e più discussi di sempre, che ha appassionato uomini e donne del mondo. A proposito di pensiero anticipatorio, non posso non ricordare qui Anassimandro, il filosofo greco allievo (e forse anche parente) di Talete, vissuto a Mileto fra il 600 e il 500 aC. Di suo ci resta un unico, piccolo frammento scritto (e una moltitudine di fatti e pensieri ricostruiti e riportati nei secoli successivi), questo: “Le cose si trasformano l’una nell’altra secondo necessità e si rendono giustizia secondo l’ordine del tempo”. Probabilmente è questa la prima traccia dell’interrogarsi sul valore del tempo nella storia.

Un migliaio di anni dopo, nel IV secolo, Sant’Agostino si interroga sulla possibilità di misurare il tempo e ne  Le Confessioni, si chiede:  “Che cos’è, allora, il tempo? […] Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il passato non esiste più, che il futuro non esiste ancora? E il presente, alla sua volta, se rimanesse sempre presente e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, perché sia tempo, deve tramontare nel passato, in che senso si può dire che esiste?”

La misura del tempo, insomma, è strettamente legata a chi “nell’animo vive l’attesa del futuro e nell’animo vive il ricordo del passato”.

Ma la misura del tempo ha anche una valenza più “fisica” di quella percepita dall’animo come ricorda Sant’Agostino. Che il tempo avesse andamenti difformi e non univoci era stato chiaro – e qui torniamo a parlare di chi riesce ad anticipare le cose – anche ad Albert Einstein. Il tempo in basso scorre più lentamente che in alto. La differenza è minima, ma comunque registrabile oggi con orologi un po’ sofisticati. Einstein lo aveva capito un secolo prima che fosse possibile misurarla, questa differenza.

Una scoperta non osservabile direttamente allora, ma che da allora in poi ha rivoluzionato le leggi della fisica. Il tempo, insomma, non è lo stesso per tutti, da qualsiasi punto di vista lo si voglia considerare. Anche solo strettamente da quello fisico, come ci ricorda sovente Carlo Rovelli nelle sue considerazioni sul tema: “Il tempo non è una linea con due direzioni eguali: è una freccia, con estremità diverse. È questo che ci sta a cuore del tempo, più che la velocità a cui passa. È questo il cuore del tempo. Questo scivolare che sentiamo bruciare sulla pelle, nell’ansia del futuro, nel mistero della memoria”.

Quello che forse la maggior parte di noi oggi percepisce, è in ogni caso la sensazione continua di non avere abbastanza tempo a disposizione. Corriamo e ci affanniamo nella rincorsa spasmodica di riuscire ad afferrare la gran parte delle cose, delle occasioni, delle situazioni che il mondo iperproduttivo di oggi ci mette davanti.

Non ce la facciamo, pare, a restare indietro. L’accelerazione diventa il paradigma ineliminabile delle nostre quotidianità sferzate dalle occasioni. Eppure… eppure a volte tutto questo correre ci porta ad avere l’affanno, a vivere in maniera frustrante le stesse situazioni che abbiamo rincorso; ci sentiamo come spaesati anche in realtà che dovrebbero essere, invece, familiari. Perché?

Una delle ipotesi più convincenti è quella che ci fornisce Byung-Chul Han con la sua visione del mondo stressato da questa sorta di necessità di avere una vita activa, come la definisce, stretti in una morsa infernale che ci rende produttori e consumatori sempre più feroci, con il fine ultimo – apparente – della nostra realizzazione. In realtà, ci ricorda il filosofo coreano/tedesco, tutto questo nostro correre e accelerare ha un effetto devastante proprio sulla concezione stessa del tempo (e sulle nostre vite): il risultato più evidente, infatti, è quello di vivere in un tempo che si è come atomizzato, un tempo che non scorre più fra la memoria del passato e l’attesa del futuro ma è costituito in realtà da una sorta di presente perenne, istante dopo istante, in una successione di “qui e ora” che finiscono con il perdere il senso della storia.

Non c’è più, insomma, un continuum che, a partire dall’esperienza del passato, ci porta a riflettere sulle cose del presente immaginando anche un certo futuro (e facendoci comportare di conseguenza, magari). Viviamo invece in un mondo che fa della prestazione il suo mantra principale e della velocità la modalità di esecuzione delle cose, sottraendoci tempo e occasioni di riflettere e “sognare”.

Manca, insomma, quella che potrebbe essere definita la narrazione delle nostre vite, una storia che si dipana e ne segna anche, sia pur grossolanamente, la trama. E se manca la narrazione, la storia di trasforma in “informazioni”, in un continuum puntiforme nel quale a farla da padrone sono gli spazi vuoti fra le cose.

Manca, appunto, la continuità, il progetto. Siamo quasi obbligati a saltare da una cosa all’altra (e lo chiamano multitasking connotandolo di valenza positiva, quest’obbligo per non restare indietro…).

E nelle pause, quando la linea si interrompe all’improvviso? Le pause generano ansia (da prestazione, appunto), e allora via con un’altra informazione (anche a caso), un like, e si va avanti. E passa la paura. Tutto questo correre, fra l’altro, ci fa perdere di vista alcune cose che invece, in quanto animali sociali (e comunitari) ci servirebbero, eccome.

Per esempio il riflettere sulle cose (invece che sorvolare sulle stesse senza profondità), che ci porta spesso a vivere qualsiasi episodio senza avere gli strumenti per fronteggiarlo; e il dover sempre vivere di corsa, in accelerazione, fa si anche che molte cose quando accadono ci sembrano inopportune, impreviste ed improvvise.

Che capitano sempre al momento sbagliato. Siamo come sorpresi da tutto; dalle cose belle ma anche da quelle meno belle, dalle malattie, dalle catastrofi, persino dalla morte. Tutto accade, sempre, apparentemente all’improvviso.

E viviamo, in queste presente perenne e atomizzato che non ci lascia tempo, senza coltivare alcuni riti collettivi, gli stessi che ci fanno fortificare come comunità. Una carenza che poi torna, purtroppo, a farsi sentire nei momenti meno felici delle nostre vite. Quando l’appartenere ad una comunità sarebbe stato un modo migliore di vivere le cose.

Queste nostre vite veloci, insomma, pare siano state contagiate dal Covid. Hanno perso l’olfatto. Hanno privato il tempo del suo profumo. Un concetto, quello di profumo del tempo, che parte da lontano, quando in Cina (VI-VII secolo dC) erano in uso “orologi” che utilizzavano incensi profumati in modo diverso per scandire il tempo durante le cerimonie.

Un profumo che accomuna due grandi pensatori del mondo moderno: il fisico Rovelli, che ricorda il profumo delle madeleine rievocato da Proust nelle pagine iniziali della Recherche per spiegare il suo punto di vista sul tempo, e il filosofo Han, che riconosce al tempo non accelerato artificialmente, un tempo più “umano”, fatto anche di pause e riflessione, un profumo particolare. Appunto, il profumo del tempo.


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